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Gianni Savio con il giovane Egan Bernal photo Luca Bettini/BettiniPhoto©2017

10 DOMANDE A… GIOVANNI SAVIO: “RASSEGNATEVI, NON ANDRÒ MAI IN PENSIONE”


Fine conoscitore del movimento sudamericano, in più di trent’anni in ammiraglia si è regalato enormi soddisfazioni, come la vittoria al Tour de France con Cacaito: “Avevo detto che il Pro Tour avrebbe rovinato il ciclismo. Ho avuto ragione…”

 

 

Giovanni Savio, detto “Gianni”, general manager della Androni Sidermec e grande appassionato di ciclismo, pur non avendo mai corso in bicicletta, ha sempre avuto a cuore questo meraviglioso sport. Un’enciclopedia vivente, fine conoscitore del movimento sudamericano, in più di trent’anni nel mondo delle due ruote ha saputo regalarsi enormi soddisfazioni, come la vittoria al Tour de France con Cacaito.

Prima di diventare team manager, come era il tuo rapporto con il ciclismo?

“La mia famiglia ha sempre avuto nel sangue la passione per il mondo delle due ruote. Infatti mio nonno materno, Giovanni Galli, corse ai tempi di Costante Girardengo. Ricordo che, su uno degli annali di ciclismo, lessi di un campionato piemontese, aperto a tutte le categorie, che mio nonno, allora sconosciuto, riuscì a vincere davanti proprio a Girardengo. Io son sempre stato un grande appassionato di ciclismo ma da giovane, quando ero più o meno alle medie, mi piaceva giocare a calcio, un po’ come a tutti i miei coetanei. Proprio in quegli anni iniziarono a chiamarmi Gianni, come il grande Rivera. L’unica volta che ho corso in bicicletta è stato una ventina di anni fa a un campionato regionale giudici di gara…”.

Come è iniziata la tua esperienza nel professionismo?

“Nel 1985 feci un validissimo corso tenuto da Italo Allodi, ex dirigente sportivo di Juventus e Inter, e dal professor Piantoni, per diventare team manager. Nel 1993, quando ero alla ZG Mobili-Selle Italia, feci l’abilitazione per i professionisti. Penso di essere stato uno dei pochi diesse ad aver fatto tutti e tre i livelli in un anno solo; oggi, giustamente, non è più possibile”.

Ora settant’anni, ma non hai mai pensato di smettere?

“Prima di tutto ci tengo a dire che non andrò mai in pensione. A volte ho un rapporto di amore e anche di odio con il ciclismo, ma la passione mi spinge a superare le difficoltà e le delusioni. Sono ventidue anni che gestisco questa società e abbiamo creato una struttura al passo con i tempi. I legami creati nel tempo, in particolare con Mario Androni, persona di poche parole ma molto concreta, mi spingono ad andare avanti ”.

 

Androni – Sidermec – Bottecchia – photo Luca Bettini/BettiniPhoto©2018

 

Ma come è cambiato, a tuo parere, il ciclismo in questi anni?

“Una volta era molto più facile fare ciclismo e ritengo che oggi gli oneri superino gli onori. Sul piano dei budget, c’è un divario, oserei direi, stratosferico, tra squadre Professional e World Tour. Ricordo inoltre che quando arrivò il Pro Tour io dissi che sarebbe diventata una svolta epocale ma in senso negativo e alcuni fatti me l’hanno confermato. Questo cambiamento ha fatto sì che alcune squadre W.T. partecipassero, con corridori demotivati, ai grandi eventi come il Giro d’Italia o la Vuelta a Espana, solo per l’obbligo di esser presenti. Io non sono assolutamente contrario alle novità, ma bisognerebbe metter di nuovo al centro i valori sportivi”.

Quali le gioie da direttore sportivo?

“Di soddisfazioni ne ho avute tante ma credo che, tra tutte, la gioia più grande sia stata la vittoria di Nelson Cacaito Rodriguez al Tour de France del 1994 nella tappa regina, davanti a Pëtr Ugrumov e a Marco Pantani. Per me quello è stato anche un successo a livello personale perché ho creduto in questo buon corridore, nonostante altri l’avessero già giudicato inadatto al professionismo. Ricordo sempre con gioia anche i trionfi di Leonardo Sierra, primo venezuelano che portai in Italia, di Ivan Parra e di José Rujano.

E i dolori?

“Il momento più negativo è stato sicuramente la grande ingiustizia per la nostra esclusione dal Giro d’Italia dello scorso anno. Nel 2016 lo accettai, Rcs Sport mi parlò di un turn-over e quell’anno toccava a noi perché nelle edizioni precedenti eravamo sempre stati invitati. Noi, ogni volta, abbiamo onorato la Corsa Rosa e la delusione era tale che in quel periodo dissi che avremmo valutato se continuare con il progetto della squadra o smettere. La passione e la voglia di riscatto, con la vittoria della Ciclismo Cup, ha spinto me e Mario Androni a non mollare”.

 

Gianni Savio (ITA – Androni Giocattoli – Sidermec) – photo Luca Bettini/BettiniPhoto©2017

 

Da vero conoscitore del movimento ciclistico sudamericano hai sempre scovato dei giovani talenti, l’ultimo Egan Bernal, ora alla Sky. Come hai fatto a scoprirlo?

“La storia di Bernal è molto bella. Suo padre era custode della Capilla de Sal a Zipaquirà, paese vicino a Bogotá. Ma io l’ho incontrato per la prima volta alla Coppa Agostoni di tre anni fa. Paolo Alberati venne a propormi un buon passista, ma in quel periodo avevo bisogno di uno scalatore. Il caso volle che proprio lì con lui ci fosse Egan e mi presentò questo ragazzo che in tono scherzoso chiamai subito niño. Parlai comunque con lui e vidi che era uno sveglio. Quando poi mi mandarono i suoi dati, decisi che doveva correre per noi. Il giorno dopo vinse al Piccolo Giro delle Fiandre e la sera stessa firmammo un contratto con un premio di valorizzazione, proprio perché io, a differenza di altre squadre, l’ho voluto ingaggiare subito”.

Pensi che in futuro possa vincere un Grande Giro?

“Ho sempre detto, e voglio ribadirlo anche ora, che Egan Bernal, nel giro di tre o quattro anni, riuscirà a salire sul podio di una grande corsa a tappe. Poi, essendo un vero talento, con valori fisici straordinari, potrebbe stupire tutti e anticipare i tempi. É un giovane con la testa sulle spalle, sa sempre cosa vuole e corre in maniera intelligente”.

Tu hai creduto anche nel rilancio di Michele Scarponi. Ad un anno dalla sua prematura scomparsa, cosa ti ricordi di lui?

“Con Michele avevo un rapporto amichevole, per me è stata una tragedia immensa e un dolore profondo. Mi è sempre stato riconoscente per avergli dato fiducia in un momento difficile della sua carriera e lui questa fiducia l’ha più che ripagata vincendo molto con noi. Di solito non parlo di queste cose, ma voglio raccontarvi un aneddoto sul giorno dei sui funerali. Eravamo nel campo sportivo di Filottrano e c’erano questi bambini che paradossalmente davano un clima quasi festoso alla funzione. In quel momento per me era quasi come se lo spirito di Michele aleggiasse sopra di noi. Di lui non mi dimenticherò mai quel suo sorriso ironico e scanzonato, tipico del suo modo di fare”.

Non solo Team Androni ma anche nazionale colombiana e venezuelana nella tua storia. Sei soddisfatto di quell’esperienza?

“Il ruolo di commissario tecnico mi ha dato molto. Ho partecipato a tre olimpiadi , ad Atene 2004 con la Colombia, a Pechino 2008 e a Londra 2012 con il Venezuela. Santiago Botero, con la sua vittoria nella cronometro di Zolder 2002, è il corridore che sicuramente mi ha dato più soddisfazioni. Io sono attualmente – forse ancora per poco perché dico di far attenzione al percorso di quest’anno e ai colombiani – l’unico c.t. di un paese latino americano ad aver vinto un mondiale tra i professionisti. Tra l’altro, mi ricordo che alla Vuelta a Espana, Santiago non si sentiva in forma e sono riuscito a convincerlo a partecipare, chiamandolo quasi ogni giorno. Per concludere, se è vero che non andrò mai in pensione, è anche vero che non farò più il c.t. di una nazionale”.

 

A cura di Davide Pegurri  Copyright © INBICI MAGAZINE

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