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BETTINI: “CICLISMO GIOVANILE IN CRISI? VI SPIEGO PERCHÉ”. E SU CASSANI…


Paolo Bettini. Basta il suo nome per spalancare un mondo di ricordi nella mente degli appassionati di ciclismo. Grandi classiche, i Mondiali, le Olimpiadi e tanto altro ancora per un atleta che ha scritto alcune delle pagine più belle dello sport italiano. Con lui, all’alba di una nuova stagione, abbiamo voluto parlare del ciclismo di oggi e di quello che verrà.  

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Paolo, partiamo da Vincenzo Nibali e dalla sua scelta di puntare sulle Olimpiadi. Una decisione corretta? E, soprattutto, il percorso nipponico è davvero così adatto allo Squalo?

“Vincenzo ha l’esperienza per gestirsi nel modo più giusto. Seguendo il calendario credo che il Giro resti il suo vero obiettivo di stagione, mentre il Tour sarà la sua ‘palestra’ per trovare il giusto colpo di pedale in vista dell’Olimpiade, così come del resto fece prima di Rio 2016. Il percorso di Tokyo è adatto a Vincenzo anche se nell’ultima parte c’è qualche chilometro di troppo dall’ultima salita all’arrivo e dunque lì può rientrare qualcuno. Sappiamo che se Vincenzo in volata trova un avversario più brillante soffre, ma lui ha potenzialità ed esperienza e quindi deve crederci”.

Namen – – Tour de Wallone – – 2e etappe – Paolo Bettini (Quick Step)

Come vedi la crescita della nostra Nazionale di ciclismo? 

“La Nazionale è stata ricostruita da Franco Ballerini e io vissi quell’esperienza in prima persona. Ho sempre apprezzato e portato avanti il concetto di lavoro di Franco che era quello di sentirsi orgogliosi di indossare la maglia e di andare sempre a lottare per qualcosa di più grande di noi stessi, lasciando a casa l’egoismo e tirando fuori l’altruismo. Cassani sta dando continuità a questo lavoro. Diciamo sempre che non vinciamo le grandi classiche ma, quando quegli stessi atleti vestono l’azzurro e vanno a lottare per l’Italia, abbiamo visto come possiamo portare a casa anche un Mondiale. Matteo Trentin ha fatto secondo, un piazzamento che certo può essere una mezza delusione, ma ad Harrogate erano altre le nazioni che dovevano vincere ed essere protagoniste. Noi siamo arrivati lì con una squadra che era sottovalutata da tutti e siamo arrivati secondi. Continuiamo a vincere gli Europei. È bello vincere sempre ma, per onore di critica, è bello anche valutare il lavoro che si fa prima della linea d’arrivo perché, anche se manca l’eccellenza, è sempre giusto esaltare il concetto di squadra”.

LUCA PAOLINI IN THE LONDON & SURREY CYCLE CLASSIC

Come valuti il percorso di Cassani nelle vesti di selezionatore della Nazionale? 

“E’ una figura molto ‘discussa’ per certi versi. Io, al di là dei risultati, ritengo che stia facendo un buon lavoro per tutto il sistema ciclismo. Molto bravo per quanto concerne la parte di relazione, è molto uomo-marketing e, nel ciclismo di oggi, non guasta. Sa relazionarsi molto bene, sa parlare nel modo giusto, è coinvolgente, non per nulla è un catalizzatore di sponsor e questo fa molto bene a tutto il movimento. A volte mi domando quanto tutto questo gioco sia ‘border line’ nel concetto di conflitto di interesse perché Davide ricopre, in effetti, molte poltrone. Però nessuno può negare che fa del bene all’intero movimento”.

Secondo te, perché ad oggi, i giovani italiani fanno fatica ad emergere sul panorama mondiale?
“Ho una mia idea che porto avanti da sempre ed una risposta di cui sono convinto: troppa esasperazione nelle categorie giovanili, anche se non è un problema solo italiano. Facevo una riflessione: nel 1996 fu introdotta la categoria Under 23 e l’idea era quella di tutelare la crescita dei giovani. Adesso si è trasformata in quella più importante, la fase della transizione. Se un atleta passa entro i 22 vuol dire portarli professionisti a 20/21 anni, ma questo comporta che la categoria Junior, che è la prima categoria internazionale, sia già ad alto stress per l’atleta. Invece è una categoria dove un giovane dovrebbe pensare, in primis, a diplomarsi e non ad accelerare i tempi per passare professionista. Tutto questo si ripercuote sugli allievi, quindi ragazzi di 15/16 anni che, una volta, in sella giocavano e che oggi, invece, fanno già sul serio, tant’è che girano procuratori, preparatori, sponsor. Il ciclismo è uno sport duro, di fatica. Tutti ci dicono che si matura completamente per supportare i carichi di lavoro a 25/26 anni, anche se la storia ci insegna che c’è il fuoriclasse che a 22 anni ha già completato la sua maturazione. Ma questa è l’eccezione non la regola, ecco perché da noi i giovani fanno fatica. Perché quelli che potrebbero diventare grandi professionisti vengono spremuti talmente tanto che, durante il percorso di crescita, schiacciati dalle pressioni e dalle attese smodate, tanti ragazzi perdono la voglia”.

Credi che un corridore come Ganna possa far sognare i tifosi azzurri?

“Ganna ci ha dimostrato al Giro 2020 che non conosce nemmeno lui i suoi limiti. Ha vinto una tappa in salita in maniera spettacolare. Sarà sicuramente un uomo di riferimento per la Nazionale italiana e non solo per la pista”.

I prossimi Mondiali si correranno nelle Fiandre, un terreno che tu conosci molto bene e che ti ha visto protagonista. Quali sono le maggiori criticità di questo percorso e chi vedi favorito? 

“Il percorso è un mix tra un Fiandre ed una Liegi senza pavè. Credo che per noi l’uomo di riferimento sia Matteo Trentin, che è il nostro uomo per le classiche del Nord. Lo abbiamo visto nel Mondiale di due anni fa, poi la volata è un’altra storia. Lui conosce quelle zone e l’emozione di pedalare su quelle strade perché ci ha lavorato tanto quand’era alla Quick Step. Credo che abbia la grande opportunità di rifarsi del Mondiale di due anni fa che gli è svanito negli ultimi 100 metri”.

Il Mondiale di Ciclocross ha messo in risalto due corridori importanti come Van der Poel e Van Aert: secondo te sono loro il volto del nuovo ciclismo?

“Loro rappresentano sicuramente un riferimento per tutto il movimento. Sono la dimostrazione che non fa male fare ciclismo a 360°. Pertanto vanno valorizzati non solo per le prestazioni che sanno fare, ma anche per la grinta che mettono su strada. Dedicarsi al ciclocross è l’ambizione di qualcuno di arrivare a Tokyo con il ciclocross. Chapeau. In un sistema come quello italiano di mentalità, molte volte ‘ottusa’, perché esiste solo la bici da strada, loro sono l’esempio concreto che chi ha qualità le mette ovunque. Si è parlato negli anni, per fare un esempio, di Valentino Rossi che sarebbe potuto passare dalla MotoGp alla Formula Uno, poi ha fatto i rally. Valentino basta che sia su qualcosa che ha un motore fa bene e allora perché un fenomeno del ciclismo si deve limitare ad una sola disciplina? Io ho un rimpianto nella mia carriera: di aver scoperto la pista tardi, grazie a Marco Villa, se l’avessi scoperta prima magari potevo decidere un giorno di lasciare perdere la strada e dedicarmi al calendario delle Sei Giorni”.  

La notizia che ha scosso questo inizio di stagione è l’addio di Demoulin: come vedi questa sua decisione e quanto pensi possa aver influito la presenza in squadra di una figura ‘ingombrante’ come Roglic?

“Credo che Demoulin viva quello che si è detto prima sulle categorie. Ragazzi che arrivano al professionismo molto giovani con grandi pressioni – mediatiche, personali e da parte degli sponsor – poi magari non va tutto liscio a livello mentale e hai bisogno di prenderti una pausa. Non è il primo, Kittel lo ha fatto prima di lui. Non ha smesso con la bici, anzi, ma aveva bisogno di staccarsi da tutto quello che era un sistema esasperato di un ciclismo fatto di numeri, di watt. Gli occorreva vedere il suo sport da una prospettiva diversa. A volte ci dimentichiamo che sono tutti ragazzi molto giovani: c’è chi riesce a reggere e c’è invece chi ha bisogno di fermarsi per non saltare in aria. Dumolin ha detto che si stava facendo aiutare a livello mentale da tempo, che è una scelta intelligente. Lui magari lo faceva per sentirsi più sereno e, se invece ha maturato l’idea di fermarsi, significa che hanno capito che forse era meglio prendersi una pausa”.

In conclusione: sei da diverso tempo testimonial della Granfondo sulle strade di casa che porta il tuo nome. Come state gestendo la manifestazione in un periodo difficile come questo e quanto conta per te valorizzare il territorio ed incentivare le persone all’uso della bici? 

“Collaboro con un gruppo di persone del Velo Etruria Pomarance, sono più di 20 anni che la Granfondo porta anche il mio nome. È diventato il loro evento perché vivono la realtà della geotermia di Pomarance delle colline della costa tirrenica ma anche il mio perché, da quando ho smesso di correre, dedico molto tempo a questa realtà. Viviamo con tutti i dubbi che il mondo ha, normalmente era in calendario tra fine marzo ed i primi di aprile, siamo andati più in là con il calendario e, per il momento, è fissata per il 2 giugno. In questo modo avremo più tempo per capire cosa succede, anche se ad oggi non c’è la certezza di partire con mille persone in griglia. Non molliamo, la macchina organizzativa c’è ed è attiva: se si potrà fare speriamo ci sia tanta gente, se non si potrà fare promuoveremo comunque il territorio. Ci voleva la pandemia per far scoprire a qualcuno che il ciclismo di fatto non si è mai fermato, perché la bici ti rende veramente libero. Usate la bici, scoprite territori. La bici ti fa percorrere tanti chilometri e hai la possibilità di goderti i panorami. Con la macchina fai tanti chilometri ma ti perdi i dettagli, a piedi devi stare attento a dove cammini, vedi meglio ma fai meno chilometri, pertanto è il compromesso più bello: andare in bici e godersi i panorami”.

a cura di M.M. ©Riproduzione Riservata – Copyright© InBici Magazine

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