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Si torna a parlare di bollo per le biciclette ed i ciclisti insorgono parlando di provvedimento blasfemo e di messaggio avvilente contro le politiche della mobilità sostenibile. Eppure, se una Panda da 9mila euro deve pagare le imposte di circolazione, perché una bicicletta da 15mila dovrebbe esserne esente?

 

 

Nel maggio del 1895, l’anno che vide la luce della prima auto con motore a benzina, un progetto di legge autorizzava i comuni del Regno d’Italia ad imporre tasse sui velocipedi. A promulgarla il Re Umberto I, che decise così di applicare un’imposta statale su un mezzo di locomozione che, in quegli anni – va detto – era prerogativa esclusiva delle classi più agiate. Il Comune di Milano impose inizialmente una tassa di 12 lire, a Roma la tassa applicata era di 6 lire.

 

Due anni dopo giunse la proposta di tassa governativa di 12 lire (in seguito ridotta a 10) con obbligo di targhetta (bollo) applicata e sigillata dall’ufficio metrico mediante tenaglia bollatrice.

Da quegli anni, il balzello sulle biciclette ritorna periodicamente alla ribalta ogni qual volta lo Stato reclama nuove entrate. Sulla stampa e dai vari blog e forum “a tema” trapelano notizie non proprio rassicuranti sul fatto che, prima o poi, lo Stato s’inventerà la tassa di possesso e di circolazione sulla bicicletta, con conseguente stipula di nuova polizza ed assicurazione obbligatoria per i ciclisti. D’altronde, il passo è veramente breve: se lo Stato incasserà sempre meno dalla vendita delle quattro ruote e le assicurazioni inizieranno a “piangere miseria”, la bicicletta potrebbe diventare per l’erario l’approdo fiscale più scontato.

 

Queste targhette erano montate sulle biciclette e indicavano il pagamento di una tassa denominata “contributo manutenzione stradale”.

 

 

I vantaggi dell’imposta

C’è chi parla di sacrilegio, ma smarcandoci dai populismi e dai luoghi comuni, un modesto balzello sulle biciclette non sarebbe un atto di blasfemia fiscale. La tassazione dei velocipedi porterebbe, in primis, al primo censimento nazionale delle biciclette, una sorta di anagrafe delle due ruote simile al Pra. Ogni modello, infatti, essendo soggetto a tassazione, verrebbe “targato” o punzonato, dando vita così al primo registro nazionale dei veicoli a pedale.

A che serve? In primis, a scoraggiare, in maniera decisiva, i ladri seriali delle due ruote. L’anonimato delle biciclette, infatti, a differenza delle auto, garantisce vita facile ai ricettatori, che non trovano alcun ostacolo al re-inserimento sul mercato dei modelli rubati. A volte, per “ripulire” il mezzo illegalmente sottratto non serve neanche un buffetto di vernice, è sufficiente trasportarlo in un’altra provincia e l’impunità è garantita. L’imposta, invece, imporrebbe una targa e dunque conferirebbe un’identità del veicolo, rendendolo tracciabile.

Del resto, ci sono biciclette che ormai costano più delle auto. E magari l’imposta potrebbe essere circoscritta proprio a questi modelli. Perché se una Fiat Panda da 9000 euro paga bollo e assicurazione, che male ci sarebbe ad applicare una modesta tassazione su una Specialized da 15mila euro?

La tassa sulle biciclette inoltre, in tempi di ristrettezze economiche, potrebbe essere re-investita in progetti legati alla sicurezza ciclopedonale o tradotta in servizi e infrastrutture per i ciclisti, magari realizzando nuove piste ciclabili, cordoli anti-auto, aree ristoro o corsi di educazione stradale nelle scuole. In questo modo, anche negli anni grami della spending review, il grande popolo della bicicletta potrebbe contare su nuovi servizi e nuove campagne di sensibilizzazione sui trasporti eco-sostenibili. A quel punto, più che di balzello, sarebbe corretto parlare di una forma di auto-tassazione o di una vera e propria colletta da parte dei ciclisti, con una finalità ben precisa: fare in modo che l’Italia diventi sempre più un paese cycle-friendly.

 

Come è possibile vedere nelle foto, erano di forma allungata, così da poter essere attaccata ad anello sul manubrio della bicicletta.

 

 

 

Giù le mani dall’ambiente

La bicicletta è il mezzo “povero” per antonomasia, il veicolo-rifugio ai tempi della crisi. Ci sono milioni di italiani che hanno acquistato una bicicletta solo perché un’automobile – con l’assicurazione, il bollo e il caro benzina – non potevano più permettersela. Soprattutto per questo, tassare la bicicletta sarebbe, oltre che un atto di solenne ingiustizia, anche una dimostrazione d’inciviltà.

Vorrebbe dire disincentivare le politiche dell’eco-sostenibilità, scoraggiare i trasporti ad emissione zero, punire coloro che, anche per questioni di principio, hanno scelto di non inquinare. In pratica verrebbero svilite, in un colpo solo, tutte le campagne di sensibilizzazione sulla green-economy, tramutando in un cartoccio di parole al vento le solenni catechesi sul “pianeta da salvare”.

 

Sarebbe il messaggio anti-ecologico per eccellenza, una mortificante dimostrazione di come l’esigenza del “far cassa” venga anteposta al benessere collettivo. Eh già perché la bicicletta è anche un mezzo che riduce i costi della spesa sanitaria: l’attività aerobica che impone, infatti, secondo lo stesso Istituto Nazionale delle Sanità, rappresenta l’esercizio più indicato per prevenire le patologie cardiovascolari. Per questo, più che di tasse sarebbe opportuno parlare d’incentivi.

Qualcuno si ostina a ripetere che l’anagrafe delle due ruote arginerebbe il fenomeno dei furti. Falso. Le targhe delle auto hanno forse scoraggiato i ladri? Se si riesce a contraffare il libretto di circolazione di una vettura perché i malviventi dovrebbero spaventarsi nel “grattugiare” un codice sotto il sellino?

 

fonte inbicimagazine Copyright © INBICI MAGAZINE

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