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Eravamo i più forti...

Eravamo i più forti…



Sembrava la squadra più vincente del mondo, ma tutto svanì con una telefonata dalla Gendarmeria francese. Era Riccardo Riccò che, al telefono col team manager Mauro Gianetti, pronunciò solo tre parole: “Mi hanno beccato…”. Dai trionfi a sei colonne sulla Gazzetta al mesto crepuscolo di un progetto milionario, ecco in esclusiva il dietro le quinte di una brutta storia.

Raccontata da chi l’ha vissuta sulla sua pelle.

 

Eravamo i più forti. Ce lo dicevano tutti. Ogni tappa una festa, un brindisi e, il giorno dopo, alle 7 in punto, tutti davanti alla Gazzetta per farsi cullare

– a sei colonne – dall’onda vanitosa del trionfo. Pietro Algeri – una sfinge di fronte alle emozioni – tratteneva a stento l’euforia e gli emissari dello sponsor gongolavano di fronte a quelle foto cubitali in prima pagina.

Io osservavo con gli occhi a ventosa, come i bimbi davanti al rullare dello zucchero filato. Sul piano professionale semplicemente il massimo: io, capo ufficio stampa della Saunier Duval di Riccardo Riccò, Leonardo Piepoli e Iban Mayo. Contador a parte, la corazzata dominatrice del Giro d’Italia 2008.

Fino a quel momento, avevo fatto, al massimo, un giro di Svizzera con la Lpr di Omar Piscina, un team manager che – parola di Dima Konyshev – aveva le stigmate del predestinato. E, in effetti – tra i giovani Ermeti, Santambrogio, Napolitano e Gavazzi, con Damiani e Maini in ammiraglia – eravamo una squadretta niente male. Di noi, però, si parlava solo sui giornali del Ticino, e solo grazie ai buoni offici del patron Bordogna, uno che – a Mendrisio e dintorni – contava come un Papa. Ma superato Livigno, tornavi ad essere un team Continental e, quando mi presentavo ai grandi inviati della stampa nazionale, quasi non prendevano neppure il biglietto da visita. 

Ma qui, alla Saunier Duval, era tutto diverso. Perché, quando vinci al Giro, anche l’ultimo dei meccanici diventa una celebrità e quasi hai la sensazione che anche le ragazze-immagine ti guardino in modo diverso. Ebbene, quella volta, alla consolle c’ero io. E ci avevo anche creduto.

La sera a tavola, negli eleganti hotel a 5 stelle, davanti a filetti e cruditès, si schiudevano segreti mai finiti sui giornali. Dall’ultimo chilometro di Mauro Gianetti sul traguardo del Mondiale di Lugano, quando tentò di convincere, con ogni mezzo, Johan Museeuw a farlo vincere, ai racconti romanzati di Pietro Algeri alle Olimpiadi di Montreal del 1976 quando le biciclette da pista pesavano come lavatrici.

Riccardo Riccò, malgrado un’aria svagata da nutria, si era calato bene nei panni della star ed era divertente, davanti ai taccuini spianati, arginare quel piglio da bulletto che in gruppo tutti detestavano. Ma ai campioni, si sa – da Tomba a Balotelli – certi atteggiamenti da guascone si perdonano.

Poi c’era Piepoli, il grande “saggio” della carovana, il Trullo di Alberobello che, davanti ai giornalisti che parlavano di doping, srotolava arringhe sempre convincenti, parlando di “disfattismo visionario”, di inchiostro che si mescola col fango, di una caccia alle streghe che, tra sospetti e omissioni, cominciava ad annoiare. Con il tono persuasivo del venditore di Folletti, Leo aveva convinto tutti della genuinità delle sue mirabolanti prestazioni.

Poi c’era Iban Mayo, uno che – mi avevano detto – si dibatteva tra le spire di una crisi tra il mistico e l’esistenziale. Il giorno prima della 19ª tappa del Giro d’Italia lo avevo visto deambulare – stralunato – nel corridoio dell’hotel alla disperata ricerca della sua stanza. Così, quando alle Terme di Comano, lo vidi spuntare – da solo – sul rettilineo finale, confesso di essermi anche commosso. Tagliato il traguardo vittorioso, fui il primo a dirgli “Grandissimo Iban…”.

Sono sicuro che, come me, in tanti in quella squadra non sapessero neppure cosa fosse l’Epo di terza generazione, ma ancora oggi mi chiedo: come è stato possibile non accorgersi di nulla? Martin Lutero diceva che “una bugia è come una palla di neve: quanto più rotola tanto più s’ingrossa”. E forse te ne accorgi solo quando ci finisci sotto.

Come molti altri (lo sponsor in primis), non ho mai avuto il sospetto – lo dico un po’ arrossendo – di trovarmi in un “Truman Show”. Ho difeso Piepoli e Riccò davanti a decine di microfoni, ho minacciato querele di fronte alle “pretestuose insinuazioni” dei giornalisti, ho litigato con i colleghi che dubitavano dell’etica di Gianetti. Non immaginavo che, Simoni a parte, stavo mettendo la mia faccia sopra Gomorra.

Poi un giorno, da una gendarmeria francese, sul cellulare del team manager arriva una telefonata. Dall’altro capo del telefono un sibilo di voce. E’

Riccardo Riccò: “Mauro, mi hanno beccato…”. E così, in pochi istanti, l’incantesimo svanisce e quello che tutti chiamavano “Il Cobra” diventa il più grande bluff della storia del ciclismo italiano.

Di quella mattina ricordo la telefonata in “viva voce” da New York del grande manager della Saunier Duval: “Da oggi – è il diktat in-de-ro-ga-bi-le – si resetta la comunicazione. L’unico obiettivo è consentire al brand di smarcarsi, il più presto possibile, dal ciclismo”. Lo sponsor straccia il contratto e manda al macero tutto il merchandising. Anche sulle penne deve sparire l’inciso “ciycling” e quei duemila cappellini gialli li spediremo in Bielorussia ai bambini di Chernobyl.

La faraonica avventura nel ciclismo di Saunier Duval – cinque milioni di euro netti per cinque anni – svanisce nel giro di qualche ora, salvo ritrovarci, qualche anno dopo, al Tas di Losanna per dirimere gli inevitabili strascichi giudiziali. “Lei sapeva?”, mi chiese un impettito avvocato spagnolo? “Nunca más se supo nada” (mai saputo nulla), risposi in perfetto asturiano. Fu l’unica frase che m’insegnò un medico della Saunier Duval: “Un giorno – mi disse – ti sarà utile”.

 

a cura di MARIO PUGLIESE

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