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Ersilio Fantini



Ersilio Fantini, perché la chiamano Jena?

“Perché al primo anno da dilettante ho rotto il naso a uno con una testata. Non faceva altro che sfottermi, in corsa e fuori, per una forma di nonnismo.

Da quel momento per i corridori sono la Jena.

 

E tutti mi rispettano”.

Se la vostra sensibilità è già stata urtata, voltate pagina.

 

Se vi accontentate dei giudizi superficiali, fermatevi qui e segnalate pure il caso a qualche associazione bacchettona per il bollino del Parental advisory: testi espliciti. Sappiate però che quest’uomo, che ha attraversato tre decadi pedalando, non merita la censura da preti spretati.

In tempi di ipocrisia perbenista, di codici etici e guerre alla cosiddetta discriminazione territoriale, vale la pena ricordare che a inizio secolo scorso la Gazzetta dello Sport chiedeva ai ciclisti di liberare il mondo “dagli uomini pallidi, dalle menti oblique, dalle gambe storte, dai pedanti, dagli impotenti, dagli incostanti, dagli invidiosi” e che dopo aver vinto il primo Giro d’Italia Luigi Ganna ebbe fiato solo per dire: “Me brusa tanto el cu”.

 

Classe ‘67 – è nato il 28 febbraio, lo stesso giorno del Diablo Chiappucci -, bellariese, Fantini è stato uno dei dilettanti romagnoli più forti della sua generazione per poi esplodere tra gli amatori dove ha vinto un po’ di tutto.

Tanti trionfi e una macchia – “l’unica cazzata” dice lui –: uno stop per doping. Un errore comune fra i suoi coetanei per il quale è stato due anni lontano dalle corse ma che rischia di segnarlo per sempre: la federazione e gli enti hanno deciso che da gennaio 2014 chi ha avuto squalifiche superiori a sei mesi non potrà più correre tra gli amatori.

Alla faccia dei principi generali del diritto come l’irretroattività e la rieducazione della pena. Scontato che Fantini, che lavora come meccanico nel negozio Idea ruote di Santarcangelo, sia più Jena del solito: nella galassia degli impuniti si comincia a fare pulizia colpendo chi ha già pagato.

 

Fantini, allora è finita?

“Mi tocca smettere di gareggiare per causa di forza maggiore”.

 

Brucia parecchio chiudere così.

“Sì, avrei voluto decidere io quando farlo”.

 

Possibile che la Jena si arrenda senza combattere?

“In questo momento sono deluso e disgustato. Mi ritengo vittima di un’ingiustizia. Ma la passione per il ciclismo, almeno quella, non me la può togliere nessuno”.

 

Ma lei cosa farebbe per combattere il doping?

“Un regolamento come quello che è stato pensato ma che guardi in avanti. Che senso ha prendersela di nuovo con chi è già stato squalificato? Per il resto io sarei anche più severo: non distinguerei fra sostanze e squalifiche leggere e pesanti. Appena ti beccano, meriti di essere radiato. Punto e basta”.

 

Scusi, e le pomatine al cortisone per il soprassella, gli errori coi farmaci da banco fatti in buona fede?

“Seee… lasciamo stare. Ne ho sentite tante di queste storie…”.

 

Lei fu trovato positivo nel 2008.

“Un’unica cazzata che ha messo in discussione anni di sacrifici. Fin da ragazzino ho vinto fior di corse e quella macchia rischia di offuscare tutta la mia carriera”.

 

Chi prende qualcosa non è che risparmi sulla fatica, poi.

“Certo, un asino resta un asino. Non diventa un cavallo”.

 

L’unico modo per accorciare la sofferenza è pedalare più forte, diceva Pantani.

“Marco era un mio grande amico. L’ho sempre considerato una persona e non un idolo. A differenza di tanta gente che si è avvicinata a lui solo dopo che è diventato famoso”.

 

Ersilio, chi l’ha messa in bici?

“Uno zio, a 13 anni. Prima squadra il Gs Riviera. Ho fatto tutta la trafila dagli Esordienti fino agli Juniores. Poi son passato all’Alexander Gobbi frutta di Cesena, alla De Lorenzi di Forlì con Andrea Collinelli e ho chiuso da dilettante alla Giacobazzi col Panta”.

 

Quante corse ha vinto da giovane?

“Tante, tante: 130-140… Boh!”.

 

Caratteristiche?

“Passista veloce. Non da volatona ma se serviva mi ci buttavo”.

 

Perché non è passato pro?

“Mai avuti gli agganci giusti”.

 

Eppure era finito anche in Nazionale.

“Nel ‘92 ho fatto la riserva ai mondiali stayer. Ero vicecampione italiano, meritavo più considerazione”.

 

Da amatore non ha perso il vizio.

“Ho conquistato la Cassani tre volte, così come la granfondo dei monti Sibillini. E poi la Leopardiana, San Marino, il Giro di Sardegna…”.

 

Con chi ha corso?

“Ho cominciato col Pedale Santarcangiolese dell’amico Michele Sancisi. Mi ha spronato quando volevo mollare dopo i dilettanti. Ora sono alla Mg-K-Vis”.

 

Come ha fatto a diventare scalatore?

“Con gli anni ho perso 5-6 chili. In salita ho cominciato a volare”.

 

Allora da giovane ha sbagliato qualcosa.

“Non facevo fino in fondo la vita del corridore, me ne sono reso conto in ritardo e mi sono mangiato le mani. D’altronde vincevo ugualmente…. Anche Pantani mi diceva che in salita da amatore avevo un passo da pro”.

 

Quanti ricordi deve avere col Pirata…

“Mi manca soprattutto l’uomo. Con altri amici come Marcello Siboni e Samuele Schiavina nel ‘94 affittammo un peschereccio e andammo a sgombri per tutta la notte. Indimenticabile. Alla fine del Tour ‘98 mi regalò le sue scarpette ma mi andavano piccole e le diedi a Michele. Chiunque le avrebbe messe in un museo, io non ne avevo bisogno. Un’altra volta ancora lo andai a vedere a una crono al Giro. Ero tra il pubblico e lui mi riconobbe: si infuriò perché voleva che gli amici, quelli veri, andassero a salutarlo al bus della Mercatone Uno. Mi viene la pelle d’oca solo a parlarne”.

 

L’ultima volta che l’ha visto.

“Ricordo piuttosto l’ultima volta che non l’ho visto. Venne a cercarmi a casa ma ero fuori. Trovò mia moglie e disse che sarebbe ripassato. Non c’è stata più occasione”.

 

I suoi figli vanno in bici?

“Chiara, la maggiore, non è mai stata sportiva. Eric ha 8 anni, vedremo. Se penso alla mia adolescenza, al fatto che andavo a letto quando i miei amici si divertivano, direi di no. Però il ciclismo mi ha insegnato tanto”.

 

E’ uno sport pericoloso.

“A chi lo dice? Mi sono rotto tre volte la clavicola in altrettante cadute. Per non farmi mancare niente, la quarta me la sono frantumata nel ‘92 in un incidente d’auto con Pantani. Guidava lui, ci ribaltammo con la sua Toyota Celica una sera dalle parti di Santarcangelo”.

 

Il rimpianto più grande?

“Non ho mai vinto la Nove Colli. E’ sempre stata l’obiettivo della mia stagione ma non ce l’ho mai fatta. Ho chiuso due volte secondo e due volte terzo ma mai primo”.

 

Il 2011 pareva l’anno buono.

“Già. Sul Grillo restiamo in cinque. Io e il mio compagno Antonio Corradini siamo i più brillanti. Gli dico: ‘Oggi vinco io’. Chi non sa che avrei dato un braccio per la Nove Colli?”.

 

Nessuno.

“Ecco, lui fa delle storie e cominciamo a litigare. Chiamiamo l’ammiraglia e il ds decide che la squadra punterà su di me. Corradini prima minaccia di ritirarsi, poi si mette in coda al gruppetto. ‘Se vuoi vincere, tiri tu fino a Cesenatico’, dice. Bene, passo in testa fino al Gorolo, dove lui mi scatta in faccia. In vetta ha 15” di vantaggio, lo inseguo fino a Gatteo poi mollo stremato. Mi riprendono e in volata faccio terzo”.

 

Corradini ha ancora il setto nasale integro?

“Sì, (ride). Ma gli ho detto dei nomi…”.

Bip, bip, bip. Scusa Jena, ma stavolta un po’ di censura ci vuole.

 

fonte Emanuele Conti

 

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