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I GRANDI GREGARI 1

I GRANDI GREGARI



Doveva essere uno degli angeli di Coppi, invece nel 1952 il cesenate Amedeo Barducci venne escluso dalla Grand Boucle perché così aveva ordinato Gino Bartali. Storia di un corridore indistruttibile che rinunciò a tante vittorie per restare fedele alle consegne dei suoi capitani

 

 

Doveva essere uno dei fedeli gregari di Coppi, l’uomo che avrebbe dovuto scortarlo verso l’olimpo della gloria. Invece il destino per lui ha deciso diversamente, negandogli il visto sul passaporto della storia. Proprio a lui, corridore generoso e uomo leale, sempre pronto a spaccarsi la schiena per i suoi capitani. L’uomo che, assieme all’altro romagnolo Luciano Pezzi, avrebbe dovuto accompagnare – gomito a gomito – il Campionissimo fin sulle prime rampe dell’Alpe d’Huez e del Puy de Dome e poi riceverne l’abbraccio riconoscente durante il giro d’onore al Parco dei principi. Doveva andare così. Ma la storia, si sa, non sempre sa essere riconoscente.

Al cesenate Amedeo Barducci quel posto gli spettava di diritto. Se l’era meritato sul campo. Non a caso lo avevano selezionato per la Nazionale al Tour de France del 1952. Ma, a due giorni dalla partenza, il dietrofront che non ti aspetti: “Mi arriva un telegramma della Federazione e mi dice di restare a casa. Al mio posto va il toscano Giulio Bresci”. Un ripensamento sospetto, figlio della maledetta diffidenza di Gino Bartali: “Preferiva avere un gregario toscano, uno della sua terra”. In effetti è la geografia a fregare Barducci, accasato fin dal 1949 alla Frejus, la squadra capitanata da Ferdi Kubler. Poco importa se lo svizzero è assente in quell’edizione della Grande Boucle e non contano neanche l’amicizia e la stima di Coppi nei confronti di Barducci: “Troppo amico dell’elvetico”, sentenzia Ginetaccio. E tanto basta per sbarrargli la strada e cambiare il corso della sua carriera.

“Da quel giorno m’hanno smontato, non è stato più come prima”, raccontava il cesenate qualche anno fa ad un cronista locale. Un’amarezza destinata a diventare bruciante, quando a Parigi il grande Fausto è primo con mezz’ora su Stan Ockers. L’accoppiata Giro-Tour, l’impresa che allora pareva impossibile, è sua per la seconda volta. Barducci doveva essere lì, invece, segue le gesta di Coppi dalla radio. Gioendo e imprecando.

A distanza di sessant’anni non si è ancora dato pace: “Quell’anno avrei potuto guadagnare un sacco di quattrini. L’unica volta che mi è andata bene – raccontava Barducci – è stato al Giro del ’50 quando vinsi la classifica a squadre con la Frejus. Con quel gruzzolo c’ho tirato su la casa. Senza premi prendevo 65mila lire al mese. Non una miseria ma neanche ci diventavi ricco”.

 

 

Hugo Koblet

 

Perfetto prototipo del gregario, con Barducci il ciclismo non è mai stato troppo tenero: “Quanta polvere ho mangiato nella mia vita – amava ripetere – quando il capitano forava dovevo dargli la mia ruota, arrangiarmi per riparare quella rotta e tornare in gruppo superando ammiraglie, macchine e moto varie. Con lo sterrato si formava un nuvolone bianco che non faceva vedere nulla e toglieva il respiro”.

A beneficiare del suo inestimabile lavoro un certo Kubler, uno che non esitava ad attaccarsi alla sella”. Lo sapevano tutti che quel passista-scalatore romagnolo era ‘le gambe di scorta’ del campione elvetico. Una fedeltà che, prim’ancora di quel fatidico Tour, gli costa i Mondiali del ’51: “Ero la prima riserva, Coppi dette forfait ma scelsero Antonio Bevilacqua. Va bene che lui aveva appena vinto nell’inseguimento ma secondo me non vedevano l’ora di farmi fuori”. Manovra inutile, a Varese la maglia iridata se la infila proprio Kubler.

Per Barducci, come per tanti ragazzi di quell’epoca, il ciclismo resta la migliore arma di riscatto sociale. Cinque fratelli, il babbo che lavora come operaio “quando capita”, lui stesso che comincia a 13 anni come garzone di un idraulico e la guerra tra capo e collo: in casi simili, attaccarsi un numero dietro la schiena può salvarti la vita. E pazienza se manca quello spunto veloce che fa di Barducci un piazzato le poche volte che ha il via libera dalla squadra.

 

 

                                                                      Amedeo Barducci 

 

L’indole, tra l’altro, sarebbe quella dell’attaccante. Già alla prima corsa tra i pro, la Milano-Torino del ’49, è in fuga: “Ma sbagliavo sempre i tempi. Ero un testone perché non stavo sulle ruote e buttavo un sacco di energie”, racconta. Quando tutto andava bene arrivava l’ordine di tirare freni per aiutare i compagni in difficoltà: “Ogni tanto qualcuno si lamentava perché mi prendevo certe libertà, ma non ero proprio capace di stare in gruppo. Non avevo paura di andare in fuga e fare fatica”.  

Dopo aver ingoiato tanti rospi, al Romandia del ’52 arriva finalmente il successo con un allungo a due chilometri dall’arrivo: “Vinsi con 50 metri di vantaggio su Albani, Coppi e Koblet. Non male, eh?”. Dei suoi sei Giri d’Italia – tra il ’49 e il ’54 – restano ricordi indelebili. Come la mitica Cuneo-Pinerolo del 10 giugno 1949, quella del celebre “un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi”: “Una tappa esagerata. Gli ultimi 500 metri dell’Izoard sono sceso dalla bici. La strada era distrutta, non si andava su. Alla fine feci 48esimo”. L’Airone quel giorno plana nella leggenda del ciclismo, 192 chilometri di fuga. Dietro di lui, con quasi 12 minuti di distacco, un certo Gino Bartali: “Conobbi Coppi nel ’49 nel negozio di Mario Vicini dove a fine carriera ho lavorato come magazziniere. Mancava poco al Giro di Romagna, gli dissi che lo avrei aspettato sul Trebbio. Si sarebbe sempre ricordato di quell’episodio”. Il giorno della corsa il Campionissimo non delude: “Naturalmente vinse, in salita era già da solo. Lo vidi anche alla partenza a Lugo, tornai a casa a mangiare e mi precipitai in collina”. Totale: 200 chilometri di bici. Un Giro di Romagna anche per Barducci, in pratica.

E Bartali? “Di quella storiaccia del ’52 ne abbiamo parlato diversi anni più tardi. Ormai avevamo smesso di correre. Io volevo sapere la verità, se era stato lui a farmi fuori. Gino era imbarazzato. Mi farfugliò qualcosa del tipo: ‘Ma insomma… guarda un po’ cosa tiri fuori’. Lì ho avuto la conferma dei sospetti ma non gli ho serbato rancore. Siamo sempre rimasti amici”.

 

A cura di Mario Pugliese Copyright © INBICI MAGAZINE

 

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