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LAFFAIRE PANTANI

L’AFFAIRE PANTANI



Secondo un dossier pubblicato dalla commissione d’inchiesta parlamentare francese che ha indagato sul Tour del 1998, Marco Pantani – in quella edizione della Grand Boucle – avrebbe fatto uso di Eritropoietina (o Epo), una sostanza dopante che, innalzando il numero di eritrociti, aumenta il trasporto di ossigeno ai tessuti e dunque migliora la performance sportiva. I documenti diramati dal Senato francese hanno ovviamente scatenato una ridda di proteste, dividendo il grande pubblico di appassionati. C’è chi considera quell’inchiesta postuma un sfregio alla memoria e chi, al contrario – anche quindici anni dopo

– rivendica il diritto alla verità. Inbici vi propone, sul tema, due opinioni antitetiche. Al lettore, come sempre, l’ultima parola.

 

 

Perché va assolto

 

E’ il più elementare dei principi del diritto costituzionale a dirci che Pantani non può essere processato: la morte biologica estingue infatti ogni reato e, poiché il presunto reo non è in grado di difendersi, ogni imputazione decade d’ufficio. Ma anche nel caso in cui emergessero indizi postumi tali da ipotizzare un possibile utilizzo da parte di Pantani di pratiche dopanti, non si potrà mai arrivare ad una ragionevole certezza della prova, poiché manca il relativo iter processuale che, in questi casi, prevede – ad esempio – la possibilità da parte del corridore di richiedere le cosidette “controanalisi”.

Inoltre, come molti scienziati hanno sottolineato, per lo status di conservazione dei campioni ematici, è lecito dubitare dell’attendibilità di questi esami.

Ma al di là di questi elementari principi forensi, che senso ha voler riscrivere solo la storia del ciclismo del 1998 e non quella degli anni precedenti? In base a quale principio di equità, è lecito cioè circoscrivere l’inchiesta al Tour vinto da Pantani e non, magari, ai cinque vinti qualche anno prima da Miguel Indurain o da Bernard Hinault?

Cancellare con un colpo di spugna le imprese epiche di Pantani è un esercizio di sterile crudeltà, perché sottrae al ciclismo degli anni ’90 le sue pagine più belle ed emozionanti. Ma togliere a Pantani i suoi trofei vuol dire anche svilire il senso della sua tragedia, nata proprio nel giorno in cui – a Madonna di Campiglio – qualcuno osò dubitare della genuinità delle sue formidabili imprese.

Anche un certo Eddy Merckx inciampò nella tela del doping e, a differenza di Pantani, fu persino squalificato. Ma nessuno, dopo tanti anni, si è mai permesso di infangare la grandeur delle sue vittorie. Poiché “l’invidia – come diceva Balzac – è una confessione d’inferiorità”, la sensazione è che i francesi, estromessi da troppi anni dagli albi d’oro delle corse più prestigiose, abbiamo trovato un pretesto, tanto perfido quanto micragnoso, per “resettare” la storia e far passare in secondo piano le loro continue debacle agonistiche. 

 

 

Perché va condannato

 

Se le analisi sul sangue di Pantani dimostrassero, anche 15 anni dopo, l’assunzione di Epo, sarebbe giusto cancellarlo dall’albo d’oro del Tour de France. Così come accaduto, del resto, per sette volte a Lance Armstrong ed una volta a Floyd Landis. Il grande pubblico degli sportivi, infatti, ha il sacrosanto diritto di sapere se certi corridori abbiano fatto ricorso a pratiche illecite per conquistare le loro vittorie. Non si tratta d’infierire sulla memoria di un corridore, ma solo di ristabilire una verità storica e di ribadire la “tolleranza zero” nei confronti del doping. E’ vero che Pantani, nella sua carriera, non è mai stato formalmente squalificato per doping, ma se i progressi della medicina ci consentono di svelare oggi nuove verità, per quale ragione dovremmo far finta di nulla? D’accordo, quelli erano altri tempi, ma può la teoria del “così fan tutti” o “del dopato tra i dopati” depenalizzare un reato? E’ vero che la morte esige rispetto e, sul piano penale, è un’indiscutibile livella, ma restano le responsabilità morali che il tempo non cancella. Senza i progressi della genetica, ad esempio, non avremmo mai risolto, dieci anni dopo, il delitto dell’Olgiata e la Contessa Alberica Filo della Torre non avrebbe mai avuto giustizia.

Ricorrere al revisionismo non significa sempre invocare la gogna pubblica per chi ha sbagliato, ma solo consegnare ai posteri verità più credibili. Da non sottovalutare, infine, il messaggio che si vuole tramandare alle nuove generazioni. Nel caso in cui si dimostrasse che Pantani ha realmente sbagliato, per quale ragione dovremmo permettere che i giovani ciclisti continuino ad ispirarsi a lui e alle sue imprese? Non sarebbe più educativo spiegare che quel corridore non può essere preso ad esempio perché lo sport ha il dovere morale di rifiutare ogni forma di contraffazione?

 

Tu cosa ne pensi?

 

a cura di Mario Pugliese

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