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L’INTERVISTA



Folgorato a cinque anni da Moser, ha raccontato le grandi pagine del ciclismo a cavallo del millennio. InBici magazine vi presenta il suo nuovo collaboratore: Fabio Panchetti

 

 

“Fare il giornalista sportivo non è facile, ma è sempre meglio che lavorare”. Un grande classico degli aforismi racconta, con una punta di ironia, la vita professionale di Fabio Panchetti, un eccellente giornalista che, dal 1976, ha impresso nel genoma la sua passione per il ciclismo. Da quando cioè, a cinque anni, il destino di una giornata come tante l’ha posato tra le braccia nerborute di Francesco Moser, il campione che più di tutti lo segnerà. Nuovo collaboratore di InBici Magazine, questa intervista ci aiuta a conoscerlo meglio.

 

Fabio, il ciclismo è un lavoro o una passione?

Senza dubbio una passione viscerale che, negli anni, per mia grande fortuna, è diventata anche una professione. Per me è stato il classico sogno che si avvera, visto che io, da bambino, avevo un desiderio: diventare come Adriano De Zan. Una passione che ho ereditato in primis da mio nonno che, mi hanno raccontato, ha pure corso con Gino Bartali e poi da mio padre, anche lui grande appassionato di ciclismo. 

 

Qual è il corridore che hai amato di più?

Un solo nome: Francesco Moser. Era il 1976, avevo cinque anni, mio padre mi portò in piazza della Signoria a vedere il Giro di Toscana, che arrivava proprio a due chilometri da casa mia. C’erano Gimondi, Merckx e un ciclista dai tratti somatici molto marcati che, mentre si preparava alla partenza, mi sorrise e mi prese in braccio. “Lui – mi disse mio padre – è Francesco Moser”. Fu una folgorazione. Fra l’altro, quel giorno, Francesco vinse il Giro di Toscana e, la sera stessa, quando mio padre mi portò a mangiare una pizza, me lo trovai proprio vicino al mio tavolo”. 

 

Fervente sostenitore di Moser e, dunque, nemico giurato di Saronni?

Adoro Francesco, ma ho grande stima e rispetto anche per Beppe. Negli anni ho imparato a conoscere Saronni e devo dire che è una persona molto intelligente e, soprattutto, dallo spiccatissimo senso dell’umorismo. Ogni volta che ci vediamo, io lo chiamo Francesco e lui, ovviamente, mi risponde “Ciao Beppe!”. 

 

L’intervista più difficile?

Sicuramente quella a Pantani alla fine del Giro del 2003. C’era Davide De Zan che faceva le domande per tutti, ma Marco, scuro in volto e con zero voglia di parlare, rispondeva a monosillabi. Attorno a lui, malgrado la calca di cronisti, c’era il gelo. Non fu semplice montare un’intervista…

 

 

 

A proposito, qual è la tua idea su Marco Pantani: vittima di un sistema o campione troppo fragile?

Scelgo con convinzione la prima ipotesi. Ho letto almeno tre libri su Marco ed oggi ho un’idea piuttosto precisa: quando lui a Madonna di Campiglio dichiarò ‘mi hanno fregato’, secondo me, disse la verità. Non credo che Pantani quel giorno fosse oltre i valori. E’ caduto in una trappola, di cui non conosco i mandanti, ma secondo me andò così…

 

Il corridore che avresti voluto intervistare…

Il secondo idolo della mia infanzia: Roger De Vlaeminck. 

 

Coppi o Bartali?

Bartali tutta la vita. Anche se “l’altro”, come lo chiamavano all’epoca i “bartaliani”, non era male.

 

Petacchi o Cipollini?

Direi Re Leone. Era il Giro d’Italia del 1989, avevo 18 anni, e mi avvicinai con timidezza a quel velocista statuario per chiedergli un autografo. Di fianco aveva Maurizio Fondriest, un altro atleta per il quale stravedevo. Mario fu molto gentile e non l’ho dimenticato.  

 

Nibali o Aru?

Dico Vincenzo, che mi ha anche invitato alla festa del suo fans club. Ma se Aru vince, da italiano, sono contento comunque. 

 

 

 

Più affascinante la Nove Colli o l’Eroica?

Per uno come me che ama il pavè, che ha in casa le gigantografie della foresta di Arenberg, che adora il ciclismo vintage di Moser, l’Eroica ha senza dubbio un fascino tutto particolare.

 

Cassani cittì della nazionale italiana: il tuo voto dopo questi tre anni?

Non posso dargli un voto altissimo perché, come sappiamo, i risultati non sono arrivati. Però, secondo me, a parte qualche errore nel primo mondiale, ha dimostrato cammin facendo di essere un commissario tecnico di grande valore. Ha preso atto della mancanza di un campione da grandi classiche, ma nonostante questo, ha sempre cercato di giocarsi le sue chance nel modo migliore. Mi piace, in particolare, questa sua abilità nello sparigliare le carte. L’ha fatto a Richmond con Viviani e ci ha provato anche a Doha. Insomma, per me merita un voto più che sufficiente

 

Mai corso in bicicletta?

Ho fatto quelle che, una volta, si chiamavano le “categorie”: la A, la B e la C, ma arrivavo sempre ultimo e, alla fine, dovetti prender atto che il ciclismo potevo raccontarlo, ma non praticarlo. 

 

Dopo il ciclismo, qual è lo sport più bello da raccontare?

Direi il pugilato. Da bambino ho un match impresso nella mente: Vito Antuofermo contro Marvin Hagler. Il ciclismo è uno sport affascinante, ma vedere la boxe da bordo ring è un’emozione esaltante. Se parliamo di sport romantici, che sono un po’ la parodia della vita, nessuna disciplina vale la noble art.

 

 a cura di Mario Pugliese Copyright © Inbici Magazine

 

Nella foto di testa Fabio Panchetti con il pugile Pasquale Di Silvio ( ph. Nando Di Felice )

 

 

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