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Maurizio Fondriest - photo Roberto Bettini/BettiniPhoto©2018

L’INTERVISTA. FONDRIEST, 30 ANNI DOPO RENAIX


Nel 1988 conquistò, a soli 23 anni, il mondiale. Fu il preludio ad una carriera esaltante. Da campionissimo a talent scout, ecco i ricordi ed i progetti dell’ex ciclista trentino

Un mondiale, una Milano-Sanremo e molti altri successi. Questo è il palmares sontuoso di Maurizio Fondriest, uno dei migliori interpreti del nostro movimento ciclistico a cavallo tra gli anni ottanta e novanta. Nonostante i problemi alla schiena che ne hanno condizionato il rendimento per buona parte della carriera, il ciclista di Cles ha saputo, al secondo anno nella massima categoria, conquistare la maglia iridata.

Sono passati trent’anni da quella vittoria che lo ha lanciato con grandi aspettative tra i migliori al mondo in questo sport. Ora, ancora a stretto contatto col mondo delle due ruote, assieme a tanti altri progetti, si impegna nell’aiutare giovani talenti a emergere nel professionismo. Con grande lucidità, attraverso le sue parole, possiamo rivivere il suo cammino da Renaix a oggi.

 

Nel 1988 la vittoria iridata, cosa ti ricordi di quel mondiale?

“Il ricordo è indelebile. Avevo solo ventitré anni ed essere il più giovane campione del mondo della storia del ciclismo italiano è stato qualcosa di unico. Quella stagione andavo forte, secondo alla Sanremo e poi un paio di vittorie. Avevamo in squadra corridori affermati, come Gianni Bugno, ma il percorso si adattava perfettamente alle mie caratteristiche e già ad inizio anno ne avevo parlato con Alfredo Martini. L’edizione del 1988 viene ricordata, nel bene e nel male, soprattutto per la caduta di Claude Criquielion e Steve Bauer. Nei mesi successivi la domanda che mi ponevano spesso era se avessi potuto vincere anche senza quel fatto. Non si può sapere, tuttavia io rispondo sempre che, sia prima che dopo, non ho mai perso una volata contro entrambi i corridori e inoltre il leggero strappo finale, al 5-6%, sembrava disegnato apposta per me”.

Cosa è successo nei momenti successivi, dopo aver tagliato il traguardo?

“Sono successi due fatti in particolare, uno bello e uno un po’ meno. Subito dopo l’arrivo, andando verso il controllo medico, son stato costretto a tornare indietro, verso le tribune, perché dei tifosi belgi, vuoi per le birre di troppo, vuoi perché non sapevano bene cosa fosse successo al loro idolo Criquielion, sono riusciti a passare oltre le transenne e ai poliziotti di guardia. In tutto questo trambusto la mia bicicletta è sparita ma fortunatamente un appassionato belga, che aveva assistito alla scena, è riuscito a recuperarla e a riportarmela. Il secondo fatto, quello che tengo nel cuore, è successo all’albergo che la nazionale aveva affittato. Li è venuta a trovarmi, assieme ai genitori, la mia ragazza e, poiché il giorno dopo compiva gli anni, le ho dato in regalo un anello che avevo comprato per lei e che tenevo in valigia”.

Quella vittoria, la prima di spessore, ti ha dato una nuova consapevolezza?

“Vincere una mondiale così giovane è stato stupendo, tuttavia la stagione seguente non è stata semplice. Con l’iride addosso ho vinto solo tre corse e ho fatto molti secondi posti. Si correva molto in Italia e c’era una elevata attenzione mediatica nei miei confronti, per certi versi quando non ho più indossato quella maglia è stata una liberazione”.

Sei tornato a Renaix?

“Ovviamente da ciclista sono passato tutte le volte che ho corso il Giro delle Fiandre. Sono tornato anche nel 2008, in occasione del ventennale del mondiale, e ho regalato una mia bicicletta al comune di Renaix. È ancora esposta al centro sportivo del paese”.

A proposito di mondiale, come giudichi quello di quest’anno?

“A mio giudizio, il percorso di Innsbruck è uno dei più duri da vent’anni a questa parte, forse quasi come quello vinto da Abraham Olano davanti a Miguel Indurain e Marco Pantani, a Duitama. Penso che sicuramente, dopo 5000 metri di dislivello, non arriverà un gruppetto in volata ma al massimo due o tre corridori assieme. I miei favoriti, se proprio dovessi fare tre nomi, sono: Alejandro Valverde, che forse avrà l’ultima occasione per vincere il mondiale che gli è sempre sfuggito, il francese Julian Alaphilippe e, se riuscirà a trovare una buona forma durante la Vuelta, il nostro Vincenzo Nibali”.

Milano-Sanremo: Fondriest is op de Poggio gedemareerd, foto Cor Vos ©2003

Come sta lavorando, a tuo giudizio, la nostra nazionale?

“Abbiamo Elia Viviani che quest’anno ha fatto un salto di qualità e Matteo Trentin che, nonostante l’inizio di stagione sfortunato, è riuscito a conquistare l’europeo ad agosto. Il c.t. Davide Cassani sta facendo un lavoro strepitoso, tuttavia occorre sempre il corridore capace di fare la differenza. Al mondiale speriamo di avere un Vincenzo Nibali in forma, come lo era alle Olimpiadi, dove solo la sfortuna l’ha fermato”.

Torniamo al tuo passato. Nel 1993 la tua miglior stagione: Milano-Sanremo, Freccia Vallone e una ventina di altri successi. Come è stato quell’anno?

“Il 1993 è stato stupendo! A causa di un problema alla schiena ho sempre faticato parecchio, non riuscendo, in molte occasioni, a esprimermi al massimo delle mie potenzialità. Quell’anno però ho fatto molte vittorie e ovviamente il trionfo che mi emoziona ancora oggi è quello della Sanremo. Quel giorno, alle quattro della mattina, nasceva la mia prima figlia e al pomeriggio salivo sul gradino più alto della Classicissima”.

Hai qualche rimpianto?

“Le Olimpiadi di Atlanta del 1996 sono il mio unico rimpianto. Ho avuto sfortuna, correndo la cronometro sul bagnato e giungendo quarto al traguardo, a pochi secondi dal podio. Non penso che sarei riuscito a conquistare l’oro, però, se avessi trovato strada asciutta, una medaglia probabilmente sì”.

Come hai vissuto il momento del ritiro?

“Da una parte ero sereno perché le ho provate tutte, dall’altra invece ero rammaricato perché sono stato condizionato parecchio dal mio problema alla schiena. Penso che forse avrei potuto fare ancora risultati, anche se, mentalmente, appendere la bici al chiodo è stata una sorta di liberazione”.

Con chi, tra i tuoi ex compagni o rivali, si è creato un rapporto di amicizia che dura ancora oggi?

“Sicuramente con Marco Zen, compagno di stanza alle corse e per dieci anni nello stesso team, il rapporto di amicizia è continuato. Sento spesso anche Gianni Bugno, mio grande rivale quando correvo. Anche l’australiano Allan Piper è uno dei miei più grandi amici. Con molti altri ex professionisti poi ci troviamo ogni anno in Romagna a condividere qualcosa intorno a un tavolo”.

Attualmente invece cosa fai?

“Ho sempre seguito i corridori, dando una mano a passare al professionismo a molti, tra i quali Gianni Moscon. Però avevo il desiderio di fare qualcosa di diverso dalla semplice figura del procuratore. Un anno fa è iniziata la mia collaborazione con Paolo Alberati per proporre un servizio completo, a 360 gradi, ai ciclisti. Cerchiamo di dare la massima assistenza quando i nostri atleti vivono situazioni complicate, soprattutto se le squadre non riescono a dare il necessario supporto. Cerchiamo di far vivere ai nostri ciclisti una clima familiare, creando le condizioni giuste perché possano esprimersi al massimo. Seguiamo molti sudamericani, come Ivan Sosa che il prossimo anno raggiungerà il nostro Nicola Conci alla Trek Segafredo. Spero che questo diventi il mio lavoro principale perché è quello che ho amo fare”.

 

di Davide Pegurri Copyright © INBICI MAGAZINE

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