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MAX LELLI IN ESCLUSIVA: “ECCO I CAMPIONI CHE HO INCONTRATO SULLA MIA STRADA”


Una nuova esperienza nel comitato toscano, ma anche tanti aneddoti, storie e racconti di una (mezza) vita in sella. Il mondo del ciclismo visto dagli occhi di un grande del pedale come Massimiliano, per tutti Max, Lelli. 


Max, appesa la bici al chiodo hai frequentato il mondo della bici da nuove prospettive, avvicinandoti di più alla ‘costruzione’ del mezzo che in carriera ti ha dato tante soddisfazioni. Ma come si sta evolvendo il mercato della bici: cosa chiede oggi un appassionato? 

 
“Sta venendo fuori in maniera importante l’elettrico. Tutti coloro che non hanno molto allenamento con una bici elettrica possono fare percorsi lunghi o impegnativi con un impatto paesaggistico bellissimo. E, da questo punto di vista, si apre un mondo. L’elettrico sta facendo passi da gigante”.

 
Voglio riportarti indietro nel tempo, anno domini 1991, maglia Ariostea, il podio del Giro recitava: Chioccioli, Chiappucci, Lelli, ricordi? 


“È stata una bellissima annata, fui terzo quell’anno e quarto nel 1993 quando vinse Indurain. L’obiettivo da giovane era vincere un Giro, purtroppo non ci sono riuscito, ma ormai è andata così. Restano comunque ricordi indelebili e la passione per il ciclismo è sempre stata tantissima. Adesso faccio ancora 20mila chilometri all’anno e, se devo dire la verità, mi diverto più ora senza stress che quando lo facevo da professionista. Oggi l’unico obiettivo è mettere a disposizione l’esperienza di una vita e trasmetterla alla gente con competenza, ma soprattutto con tanta passione”.

Altro momento amarcord, sempre il 1991, tappa del Monviso… 


“Ho vinto poche tappe ma ci tengo a dire una cosa (ride, ndr). Sul Monviso ci siamo arrivati due volte: io ho vinto nel 1991 e ho fatto secondo due anni dopo quando vinse Giovanetti. Il Monviso è sempre stata una salita adatta a me. In due arrivi fare un primo e un secondo posto non è male. In una salita secca sono sempre andato molto bene, ma quella era una strada che sembrava disegnata per le mie caratteristiche”.


Che cosa voleva dire stare in un gruppo con quei talenti? 


“Nelle mie annate era un ciclismo molto seguito e, sulle strade, il tifo lo sentivi davvero. Mi ricordo di aver fatto chilometri e chilometri con la gente che, dalle transenne, ti urlava nelle orecchie. Da giovane mi sono trovato a pedalare al fianco di grandi campioni come Marino Le Carreta, ad esempio, che per me era un idolo, un corridore che per dieci anni faceva Giro, Tour e Vuelta. Poi Bugno, Chioccioli, Chiappucci. Il Diablo era un corridore un po’ al di fuori delle righe, faceva dei numeri incredibili. Sono contento di essere stato in gruppo con quei corridori. Senza dimenticare gente come Indurain, Amstrong e tanti altri”.  


Che ritratto puoi fare di Marco Pantani su e giù dalla bici? 


“Una persona straordinaria, semplice e disponibile con tutti. Abbiamo fatto qualche allenamento in Maremma insieme. Marco, quando si fermava anche ad un bar, dopo pochi secondi, era attorniato da mille persone… mai che lui avesse detto di no ad una foto con un tifoso. Abbiamo passato dei bellissimi periodi anche a caccia insieme. In corsa anche i gregari hanno fatto un grandissimo lavoro per proteggerlo nelle tappe pianeggianti, poi è chiaro che appena la strada saliva non c’era da dirgli nulla, partiva come un missile. Anche con i compagni era di una bontà unica, affettuoso, se c’era da offrire la cena non si tirava mai indietro. Persona unica, davvero”.


Un aneddoto?


Era metà gennaio, Marco non toccava una bici da quattro mesi ormai, io invece avevo già 4mila chilometri nelle gambe perché mi stavo preparando per le prime corse in Spagna. Abbiamo deciso di fare l’Argentario, una salita da queste parti che ‘usavo’ abitualmente per verificare i miei parametri. Facciamo questa salita e Marco mi stava spiegando che aveva cambiato il calcio del fucile da caccia, era maniacale anche in questo. Ad un certo punto gli dico “Panta, scala perché così mi stacchi”. Per farti capire che, anche se erano mesi che non toccava una bici perché avrebbe iniziato dopo la preparazione in vista dei grandi giri, ed io non ero l’ultimo della fila in salita, lui aveva una gamba, una classe fuori dal comune, aveva un colpo di pedale incredibile, un gioco di caviglia unico.

Una mattina al Tour, prima di una tappa di 140km con cinque salite, eravamo nel camper a prendere il caffè e mi dice: ‘Vatti a fare un giro che io al chilometro zero parto a tutta!. Così fece. Partì subito fortissimo, andando via al chilometro zero con due spagnoli e mise al gancio Armstrong, il quale ad un certo punto era rimasto da solo con Livingston. Il Panta era uno che azzardava. Un altro aneddoto: erano i primi anni in cui c’erano i cardiofrequenzimetri e lui mi disse: io non voglio nulla, vado a sensazione’. Un altro ricordo che porto nel cuore del Pirata: al foglio firma di una Milano – Sanremo. Noi eravamo già incolonnati, il Panta si avvicina a me e a Cipollini e dice: “Guarda adesso sembriamo il bello, il brutto e il cattivo”. Abbiamo riso fino all’imbocco del Turchino. È stato un grande, lo porto nel cuore. Abbiamo passato dei momenti troppo belli insieme. Lui, riferendosi a quel giorno di Campiglio, mi ha sempre detto che era stato fregato, me lo ripeteva spesso e sono convinto che avesse ragione”.


Come vedi la figura degli scalatori oggi? 


“In Italia, dietro a Nibali, che ha fatto una carriera bellissima, c’è poco. Probabilmente negli anni indietro non è stato fatto un buon lavoro nei settori giovanili. Mi auguro che Aru possa ritrovarsi. Adesso è ripartito da zero con il ciclocross, gli auguro di tornare quello di prima. Vedo in giro qualche corridore interessante, ma serve pazienza”.


Hai seguito anche il ciclismo in moto come operatore Rai: come si vede la corsa da quella prospettiva?


“L’ho fatto per due anni e, se devo essere sincero, ho sempre avuto un po’ di paura in moto. Quando inizia la bagarre lì in mezzo diventa una ‘guerra’ perché fai a sportellate con le ammiraglie. L’ho sempre detto che ho rischiato di più in due anni in moto che in quattordici Tour de France. Se riesci a vincere la paura poi sei a ridosso del gruppo e vedi tutto riuscendo a trasmettere sensazioni con grande fedeltà”.


C’è un aneddoto che puoi raccontare? 


“In Rai tutto è sempre organizzato in maniera perfetta, ma era già un paio di volte, durante una Milano – Sanremo, che non mi arriva la linea. Io parlo con il mio motociclista per sapere se ci fosse il collegamento ma nulla; ci accostiamo allora un attimo per un… bisognino e, proprio in quell’istante, arriva la linea al volo. Ma io ovviamente ero impegnato (risata, ndr). Ancora il pilota della moto mi ricorda quella scena e, anche dopo tanto tempo, ci facciamo delle risate”.  


Che corsa è la Sanremo: che cosa significa esserci dentro? 


“E’ una corsa bellissima, storica. Io non ho mai fatto risultato perché non era adatta alle mie caratteristiche. Se arrivi nella parte finale e hai gamba, perché devi averla, la discesa del Poggio diventa incredibile, molto tecnica con un asfalto un po’ scivoloso, serve grande attenzione. È una bella classica, unica nel suo genere. È la gara che apre la stagione, dove tutti i grandi campioni si affrontano per la prima volta. Attenzione adesso, però, alle Strade Bianche, che hanno un fascino acerbo ma attirano già i grandi campioni. Una corsa a cui oggi tutti vogliono prendere parte, basta vedere gli ultimi vincitori della Strade Bianche… “. 


Che storia è stata la tua Saeco e cosa voleva dire avere in squadra un grande come Mario Cipollini? 


“Cipollini in allenamento era una macchina da guerra, ho avuto la fortuna di allenarmi con tanti campioni, ma come Mario nessuno. Gli ho visto fare anche 350 chilometri prima di una SanRemo. Dai primi di novembre alla Sanremo non saltava un giorno di allenamento. Su quest’ultimo e sui materiali era la perfezione. Come credo sarebbe il numero uno se fosse il commissario tecnico di una Nazionale, aveva un carisma particolare un po’ come Alfredo Martini. Quando sentivi parlare uno come Alfredo davi l’anima e, forse, questo profilo potrebbe averlo anche ‘il Cipo’ per i giovani. Quello che c’è ora, i colori, i disegni sulle bici, sono figlie di quello che ha fatto Cipollini in quelle stagioni”.


Che cos’era la maglia azzurra? 


“Ho avuto la fortuna di fare due Mondiali da giovanissimo. In quegli anni, fino al Trittico Lombardo, non era scontato entrare. Poi Alfredo Martini era unico. Riuscì a mettere tre campioni in una riunione tecnica e fargli capire che potevano essere importanti tutti, non era facile. Ho fatto il Mondiale di Stoccarda in cui ha vinto Bugno, altro grandissimo campione, un corridore eccezionale con un talento unico. In bici non capivi se era stanco perché il suo volto non tradiva mai una smorfia. La volata che ha fatto al Mondiale fu incredibile. Posso dire una cosa però: l’ho battuto in una tappa a Selva di Valgardena, mi ero studiato benissimo il Garibaldi e riuscii a vincere. Allora non c’erano le radio ed era più difficile. Posso dirti una cosa?”


Dimmi…


“L’avvento delle radio ha un po’ appiattito lo spettacolo, che tanto piaceva alla gente. Tutti hanno la radio, i watt, tutto molto più interattivo e lo spettacolo ci perde. I ragazzi sono un po’ troppo pilotati. È bello il fatto che uno possa partire e dare spettacolo. Non siamo in Formula Uno, il ciclismo è uno sport che deve dare spettacolo. Adesso appena parte una fuga sanno già chi c’è”.


In conclusione: da produttore di vino, che vino sarebbe il ciclismo tuo e quello di adesso e che vino sarebbero i grandi campioni di cui abbiamo parlato? 


“Cipollini e Pantani son stati due grandissimi campioni e li posso paragonare ad un vino corposo, importante, pregiato dove c’era l’anima vera del sudore e dell’allenamento. Noi dovevamo sudarci tutto, adesso i giovani, senza nulla togliere, hanno tutto. Sotto questo aspetto era anche meglio perché capivi sulla tua pelle il valore del sacrificio e dell’allenamento. Io quando avevo cinque minuti salivo in bici, avevo una fame di emergere incredibile. Quel ciclismo è un bel Sassicaia, di quelli giusti. Il ciclismo di oggi è un vino Sangiovese, più tranquillo, soave. I ragazzi oggi hanno tutto, ma manca un po’ l’anima. Un aneddoto, per spiegare: quando Cipollini al Tour mise la maglia gialla, io potevo far classifica, ma mi sono finito per stargli accanto ed aiutarlo. Lui non voleva ma, quando c’è l’amicizia vera, si dà l’anima”.

a cura di M.M.  Copyright© InBici Magazine ©Riproduzione Riservata

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