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Giro Italia 1973 Giovanni Michelotti - Vincenzo Torriani -foto Alberto Pasca

GIOVANNI MICHELOTTI, IN AMMIRAGLIA UN FUORICLASSE SILENZIOSO. di Gianfranco Josti


Fedele “braccio destro” di Vincenzo Torriani, il sammarinese organizzò, in quasi 40 anni di carriera, tanti eventi ciclistici di successo. Dai Giri d’Italia alle Sei Giorni di Milano, passando per i Mondiali, storia di un uomo che, fino all’ultimo, ha sempre schivato ribalte e riflettori.

Quest’anno Giovanni Michelotti non ci sarà ad accogliere il Giro d’Italia. L’aveva sempre fatto dal 1951 quando la corsa rosa sconfinò per la prima volta nell’antica repubblica.

Ai tempi di quella cronometro (Rimini-San Marino, 24 chilometri, inattesa vittoria di Giancarlo Astrua sul favoritissimo Fausto Coppi) era un ventiseienne universitario fuoricorso, cooptato nel comitato organizzatore della tappa.

In quel lontano primo giugno il geometra Pier Giovanni Michelotti, sanmarinese doc, sesto figlio su otto di una facoltosa famiglia patriarcale non avrebbe mai immaginato che avrebbe legato la sua vita al ciclismo essendo riuscito proprio quel giorno a familiarizzare con Vincenzo Torriani.

Prima però di diventare il preziosissimo braccio destro dello storico patron fu spedito negli Stati Uniti da papà Simone perché doveva “rimettersi in riga”. Già perché a Detroit non l’attendeva il volante della fiammante spider con cui attirava fanciulle universitarie (e non) a Bologna o sulla riviera adriatica bensì una vanga e il perentorio ordine dello zio: “adesso datti da fare perché la terra non aspetta”.

Pochissima propensione allo studio ma grandissima voglia di dimostrare a suo padre di sapersela cavare nella vita, l’ex universitario gaudente si è presto trasformato in intraprendente ed apprezzato imprenditore nel settore manutenzione strade, costruendo marciapiedi e guard-rail. Avrebbe potuto divenire uno dei tanti emigranti sanmarinesi che hanno fatto fortuna oltreoceano, ma la nostalgia dell’Italia e la lontananza dai genitori da parte della giovanissima ed avvenente moglie Rosanna l’hanno indotto a salire su un piroscafo e far rotta verso casa.

Il Giro aveva fatto ancora tappa a San Marino nel pomeriggio del 23 maggio 1956 con un breve ma spettacolare circuito a cronometro attorno alle mura dopo la frazione in linea conclusasi a Rimini. Per Giovanni Michelotti fu l’occasione per un nuovo incontro con Vincenzo Torriani e per gettare le basi perché l’anno successivo cominciasse a frequentare gli uffici della Gazzetta dello Sport nella storica sede di via Galilei a Milano.

Per ventiquattro anni il duo Torriani-Michelotti ha rivaleggiato con l’efficientissima coppia francese Goddet-Levitan e il Giro, sotto la loro abile guida, ha saputo reggere molto bene il difficile confronto con il Tour, nato sei anni prima della corsa rosa e da sempre favorito da una miglior collocazione nel calendario internazionale.

Le originali e innovative idee di Torriani erano tramutate in realtà dalla concretezza di Michelotti, così a partire dagli anni Sessanta i Giri potevano presentare in ogni edizione succose novità che spesso venivano poi proposte anche al di là delle Alpi e non solo a livello sportivo.

Francesco Moser a Città del Messico 1984

Molto apprezzati ed imitati, ad esempio, gli spettacoli musicali gratuiti di piazza che animavano le serate delle città sede di tappa, con la presenza dei cantanti e degli attori più gettonati dell’epoca. Inoltre, l’avvento della televisione, gli arrivi in diretta e il “Processo alla tappa” ideato e condotto da Sergio Zavoli a partire dal 1962 hanno davvero portato il Giro nelle case di tutti gli italiani.

Giovanni Michelotti era il vero direttore di corsa (anche se la targa che contraddistingueva quel ruolo era sull’ammiraglia del patron) sempre nel cuore della gara, pronto ad improvvisare come accadde nel ’62 quando i corridori dopo la partenza da Belluno avevano trovato pioggia neve, gelo, strade impraticabili ed era quindi stato impossibile raggiungere Moena sede del traguardo. Dopo essersi consultato con Torriani, mobilitando cronometristi, giudice d’arrivo e alcuni addetti del seguito riuscì ad organizzare un arrivo d’emergenza al Passo Rolle salvando così la corsa anche se in quella giornata tremenda il Giro perse ben 56 concorrenti costretti al ritiro.

Un altro piccolo capolavoro fu l’edizione del 1973: volendo rendere omaggio alla neocomunità europea, il via fu dato dal Belgio, a Verviers e rientrò in Italia dopo aver fatto tappa in Germania, Lussemburgo e Francia, sconfinando anche in Olanda e Svizzera. Allora esistevano frontiere e dogane ma la grande carovana rosa le attraversò tutte senza incontrare alcun ostacolo o intralcio e la rivoluzionaria iniziativa fu nobilitata dall’ennesima vittoria del fuoriclasse belga Eddy Merckx.

Atleti al velodromo vigorelli

Difficile per me inquadrare la figura dell’organizzatore sanmarinese, ma in soccorso ecco un estratto dell’intervista di Mario Fossati pubblicata il 15 maggio 1981 in un inserto speciale sul Giro del quotidiano milanese Il Giorno: “Nei suoi 24 anni di Giro d’Italia, Giovanni Michelotti ha badato soprattutto a tenersi lontano da miti e leggende. Lo conoscono tutti gli addetti ai lavori, nell’ambiente è ormai risaputo che se ogni anno il Giro prende il via il merito è in gran parte suo. Ma se provate a chiedere in giro di raccontarvi un episodio che lo riguardi, nessun ne sa proporre uno”. Qualche segreto, però, sono riuscito a carpirlo. Ad esempio al vertice di tutte le avveniristiche soluzioni realizzate nella corsa rosa, Giovanni Michelotti ha sempre messo l’arrivo della cronometro in Piazza San Marco a Venezia. Da anni Vincenzo Torriani cullava l’idea di portare il Giro nel cuore del capoluogo veneto senza venirne a capo, fino a che un gondoliere suggerì la soluzione proprio a Michelotti che da giorni si aggirava nei dintorni di una delle più celebri piazze del mondo in cerca di ispirazione: un ponte di barche sul Canal Grande. Era il Giro del 1978, Moser vinse la breve crono, ma la maglia rosa finale se l’assicurò il belga Johan De Muynck. Nonostante la giornata grigia (e la pioggia che si abbatté su corridori e pubblico appena conclusa la gara) le riprese televisive fecero il giro del mondo suscitando ovunque entusiastica ammirazione.

A proposito di Moser, un curioso aneddoto. L’organizzatore sanmarinese era solito dare del lei a tutti i corridori e non sopportava che qualcuno gli desse del tu. Quel qualcuno era proprio il trentino che aveva già ottenuto risultati eccezionali – campione del mondo d’inseguimento a Ostuni nel ’76, campione del mondo a San Cristobal nel ’77, due Parigi-Roubaix, due volte campione d’Italia, aveva indossato la sua prima maglia rosa nel ‘76 dopo essere stato una settimana maglia gialla al Tour ’75, era salito sul podio del Giro nel ’77, ’78 e ’79 – ma gli mancava la vittoria finale nella corsa più cara agli italiani e quindi era un cruccio che assillava lui e la maggior parte dei suoi tifosi. Un giorno Michelotti mi ha confidato: “Fino a che sono rimasto alla guida del Giro lui, Moser, la corsa non l’ha mai vinta. Mi dava del tu mentre io, rispondendogli, usavo il lei inoltre il suo direttore sportivo, Waldemaro Bartolozzi, chiedeva notizie sul percorso a Torriani e non a me. Per fargli dispetto sceglievo tracciati che non gli erano congeniali, come nel 1979, quando proposi la cronometro Rimini-San Marino che sulla carta pareva fatta per il trentino invece a mio parere si adattava perfettamente alle caratteristiche di Saronni. Quel giorno infatti il giovanissimo lombardo gli strappò la maglia rosa e la portò fino a Milano. Solo dopo che sono andato via dal Giro, Moser lo ha vinto”.

Giuseppe Saronni

Dopo il Giro ’81, vinto da Giovanni Battaglin scalatore veneto di grande talento, Giovanni Michelotti ha lasciato l’organizzazione della Gazzetta per diventare general manager della Federciclismo e in quella veste è caduto ogni tabù nei confronti del trentino anche se continuava “a dargli del tu”. Perché nelle vesti di organizzatore della Sei Giorni di Milano gestita dalla federazione giudicava indispensabile la presenza di Francesco Moser per la riuscita della manifestazione e si faceva in quattro perché vi prendesse parte, spalleggiato da grandi specialisti quali il belga Sercu o l’olandese Pijnen. Così come cercava con ogni mezzo di ingaggiare Saronni che, pur avendo cominciato la sua carriera in pista, non era particolarmente interessato ad una competizione variegata come la Sei giorni. La presenza dei due campioni, divisi da profonda rivalità, calamitava al Palasport milanese migliaia di appassionati e quindi garantiva il successo.

Sulla stessa pista doveva si esibiva come seigiornista navigato Francesco Moser ha gettato le basi per l’assalto al record dell’ora. Per parecchie settimane il Palasport ha ospitato gli allenamenti del trentino assistito da uno straordinario gruppo di tecnici, componenti la celebre Equipe Enervit che curava nei minimi dettagli la spedizione messicana sotto lo sguardo attento di Michelotti pronto ad assecondare le esigenze che emergevano giorno dopo giorno.

Il 19 gennaio 1984, sulla pista del Centro Deportivo Olimpico, il campione trentino demoliva il record di Eddy Merckx, migliorandolo di ben 1376 metri portandolo da 49,432 a 50,808 e quattro giorni dopo, per rispetto dei numerosi tifosi che erano volati in massa a Città di Messico (il tentativo di record era stato programmato il 23 gennaio), Moser tornò in pista e abbatté il muro dei 51, ottenendo quel 51,151 che è diventato una sorta di numero magico per la marea di fans sparsi in tutto il mondo.

Sull’onda del fantastico record decollò quella che sarebbe stata l’ultima Sei giorni ospitata nel Palazzo dello Sport di San Siro: ogni giorno e ogni sera decine di pullman scaricavano tifosi di Moser provenienti da mezza Italia. La capienza dell’impianto era di diciottomila posti, ma in alcune serate se ne ammassarono più di venticinquemila e per quella conclusiva fu necessario l’intervento della forza pubblica per limitare l’ingresso degli spettatori.

La “nevicata del secolo” che si abbatté su Milano tra il 13 ed il 17 gennaio 1985 provocò il crollo del tetto del Vigorelli e danni irreparabili a quello del Palazzo dello sport, in quei giorni si interruppe quel magico filo che legava il capoluogo lombardo con il ciclismo su pista, la Sei giorni in particolare. La fine del Palasport milanese segnò anche la fine del rapporto tra Giovanni Michelotti e la Federazione Ciclistica Italiana.

Ma prima di ritirarsi a San Marino, l’ex braccio destro di Vincenzo Torriani fu il grande regista dell’organizzazione dei campionati del mondo in Veneto, a Bassano del Grappa e a Giavera del Montello. Fu un’edizione iridata quella dell’85 che regalò alcune belle soddisfazioni per quanto riguarda la pista: il quartetto inseguitore (Amadio, Brunelli, Grisandi, Martinello) e gli stayers (Roberto Dotti dilettante, Bruno Vicino professionista) conquistarono il titolo; il velocista Octavio Dazzan ottenne l’argento nel keirin e il bronzo nella velocità; Stefano Allocchio fu terzo nell’individuale a punti.

Meno brillante il bilancio della strada, con il secondo posto di Maria Canins alle spalle dell’inavvicinabile Jeannie Longo ed il terzo posto di Moreno Argentin nella gara clou dei professionisti. La lotta spietata tra il campione veneto e l’americano Greg Lemond spianò la strada al maturo olandese Joop Zoetemelk, costretto a restare in gruppo ancora una stagione per onorare la maglia iridata dopo che alla vigilia del mondiale aveva annunciato ufficialmente il suo ritiro dalle competizioni.

Da un punto di vista organizzativo, però, il mondiale del Montello riscosse uno straordinario successo di pubblico.

Per breve tempo Giovanni Michelotti ha mantenuto un tenue legame con il mondo del ciclismo dal suo eremo di San Marino perché il noto organizzatore Nino Ceroni gli aveva affidato la direzione di corsa della sua manifestazione-gioiello, la Coppa Placci. Ricopriva quel ruolo anche nel 1988 quando la classica imolese era stata scelta come prova unica del campionato italiano. La gara si concluse in volata e a vincere non fu il grande favorito Beppe Saronni bensì Pierino Gavazzi, prontissimo e abilissimo a sfruttare la scia dell’auto del direttore di corsa sul rettilineo finale. “Pensavo che al volante ci fosse il mio autista tradizionale, il mitico Isidoro, quando ho urlato ‘vai, vai’ ero sicuro che schizzasse via, evitando qualsiasi complicazione. Invece non c’era Isidoro così ho combinato un bel guaio”, si era giustificato l’avvilitissimo Michelotti che da quel giorno non ha più voluto vestire né i panni dell’organizzatore né quelli del direttore di corsa.

Su di lui è sceso l’oblio, anche perché al di là di qualche capatina al Giro d’Italia quando faceva tappa a San Marino o nei pressi, l’ex braccio destro di Vincenzo Torriani ha scelto di estraniarsi da un mondo che pareva aver perso completamente ogni ricordo di quello che aveva fatto o contribuito a fare. Ma in occasione dei suoi novant’anni, portati con lo stesso cipiglio di quando, fischietto in bocca, dirigeva le tappe del Giro d’Italia o le grandi classiche, Sanremo e Lombardia, i grandi protagonisti della sua epoca hanno voluto rendergli omaggio con una grande festa a Milano: il presidente della Federciclismo Renato Di Rocco; l’ex direttore del Giro Carmine Castellano; Ernesto Colnago e Alcide Cerato; direttori sportivi quali Giorgio Albani, Gianni Stanga, Davide Boifava, Franco Cribiori, Marino Vigna; vincitori della corsa rosa quali Adorni, Motta, Gimondi e Moser; iridati della pista come Gaiardoni; velocisti del calibro di Zandegù, Bontempi e Allocchio; storici collaboratori dell’organizzazione quali Figini, Bellaria, il professor Fagnani. Era il 26 giugno 2014. Quattro mesi dopo, il 22 ottobre, il suo cuore all’improvviso smetteva di battere.

Come scrisse tanti anni or sono un grande giornalista come Mario Fossati: “Giovanni Michelotti ha badato soprattutto a tenersi lontano da miti e leggende”, eppure anche lui ha conquistato un giorno i titoli di prima pagina dei più importanti quotidiani. Ma non per i suoi meriti di organizzatore nel ciclismo, bensì per determinazione e freddezza nella delicatissima gestione del rapimento di un medico e di sua figlia. Nell’estate del 1973 la piccola comunità di San Marino era stata messa a soqquadro da una banda di pastori sardi che avevano rapito il dottor Italo Rossini e sua figlia Rossella, vittime ignare di uno scambio di persona. Pur essendosi resi conto dell’errore commesso, i malviventi volevano mettere a frutto il loro vile atto chiedendo un riscatto plurimilionario. Giovanni Michelotti si offrì di trovare la somma necessaria e di fare da mediatore nella lunga, estenuante trattativa con i banditi. Per molte notti percorse a bordo della sua auto chilometri e chilometri di strade secondarie sugli appennini romagnoli, umbri e marchigiani cercando da un lato di assecondare le richieste sempre più assillanti dei rapitori, dall’altro di evitare che un intervento delle forze dell’ordine potesse mettere in pericolo la vita degli ostaggi.

Alla fine Giovanni Michelotti riuscì nell’intento di riportare a casa il medico sanmarinese e sua figlia, mentre dopo alcuni anni i banditi sardi furono arrestati. “Ho fatto quello che dovevo fare” è sempre stato l’unico suo commento a quella terribile esperienza.

Di Gianfranco Josti  – Copyright © INBICI MAGAZINE

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