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Il Prefetto Roberto Sgalla, Presidente di Formula Bici

ROBERTO SGALLA: “IL RINVIO DEL DISCIPLINARE? UNA SCELTA DI BUON SENSO”


di Mario Pugliese

Le polemiche sulla proroga del disciplinare, il check sulla sicurezza, le opportunità impreviste offerte dal Covid e gli scenari post-pandemici che, inevitabilmente, ci restituiranno un ciclismo profondamente rinnovato.

Tutto lo scibile del mondo delle due ruote in un interessante botta e risposta con il Prefetto Roberto Sgalla, da sempre in prima linea nella promozione della sicurezza nelle gare ciclistiche.

Dottor Sgalla, lo slittamento dell’applicazione del nuovo disciplinare ha sollevato qualche polemica…

“Polemiche, a mio giudizio, del tutto infondate e forse anche pretestuose. Io capisco che, considerato il rinnovo dei quadri federali, alcuni interventi possano essere ispirati da motivazioni elettorali, ma chi parla di sicurezza come di un ‘valore negoziabile’ dice una sciocchezza. Perché lo fa? Credo solo per la voglia di cercare spazi ed ottenere un po’ di visibilità”.

Vuole cogliere l’occasione allora per fare un po’ di chiarezza?

“La questione, in realtà, è molto semplice. La Federazione Ciclistica Italiana, sollecitata in primis da Formula Bici ma anche da altri organizzatori, ha chiesto al Ministro degli Interni e al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti il rinvio del nuovo disciplinare a tutto il 2021. Detto che il disciplinare è una norma statuale primaria, emanata cioè dai Ministeri e non dalla Federazione, come qualcuno ancor oggi si ostina a far credere, io penso che non abbia alcun senso sollevare polemiche e che basti un pizzico di buon senso per cogliere la logicità di questa richiesta. Anche se tutti auspichiamo un celere ritorno alla normalità è infatti molto probabile che ci vorranno ancora parecchi mesi prima di poter avere un calendario regolare di manifestazioni ciclistiche. Per questo rinviare il disciplinare non significa, come qualcuno ha insinuato in tono polemico, immolare la sicurezza su chissà quale altare, ma più semplicemente prendere atto del contesto nel quale stiamo vivendo e agire di conseguenza”.

Il rinvio dunque come “atto di realismo e di buon senso”…

“Assolutamente sì e credo che gli organizzatori debbano essere grati alla Federazione Ciclistica Italiana, anche perché il disciplinare impone costi organizzativi più elevati e, in questa fase di crisi congiunturale, con la difficoltà ad esempio a reperire sponsor, la sostenibilità economica di certe manifestazioni non è affatto scontata. Quindi, senza derogare alla sicurezza, che resta una priorità della Federazione Ciclistica Italiana ed un pilastro del ciclismo del futuro, io credo che la Federazione abbia preso ancora una volta la decisione più saggia.

Non c’è il rischio che, senza disciplinare, nel 2021 le manifestazioni ciclistiche vadano incontro ad un deficit di sicurezza?

“Direi proprio di no. Forse chi fa polemica oggi non lo sa, ma esistono già molti organizzatori, soprattutto quelli di Formula Bici, che hanno sposato da tempo le linee generali del disciplinare e già le applicano con rigore. Penso alle gran fondo più importanti dove gli standard di sicurezza sono già molto elevati, anche perché, già oggi, tutte le responsabilità penali di un eventuale incidente in gara ricadono sull’organizzatore e sul direttore di corsa. Insomma, chi organizza manifestazioni ciclistiche sa di assumersi delle responsabilità importanti e dunque non metterebbe mai a repentaglio la sicurezza degli atleti solo perché il disciplinare non è formalmente in vigore”.

Quando entrerà allora in vigore il disciplinare?

“Non appena ci saranno le condizioni. Credo ragionevolmente nel 2022 quando, tra vaccino, immunità di gregge e medicine anti-covid, l’emergenza pandemica sarà più gestibile e dunque potremo tornare a vivere nella normalità.

In attesa di questo “ritorno alla normalità”, sul fronte della sicurezza, qual è oggi la situazione sulle strade italiane?

“Anche se i dati ufficiali sugli incidenti stradali del 2020 saranno inevitabilmente ‘drogati’ dai tre mesi di lockdown, negli ultimi anni abbiamo registrato un trend più incoraggiante visto che il numero dei sinistri è sceso del 20%. Questo significa che, a tutti i livelli, si è lavorato nella direzione giusta e che, dopo tanti anni, cominciamo finalmente a raccogliere i primi frutti di un radicale cambio di regole e di sensibilità. Abbiamo varato tanti progetti mantenendo un dialogo costante con le istituzioni ed investendo molto nella formazione. Penso agli operatori federali Asa, alle motostaffette, alle scorte tecniche e ai direttori di corsa, una platea di persone che oggi svolge i propri compiti con una nuova consapevolezza e maggior professionalità. Insomma, un lavoro organico su tutta la filiera della sicurezza che, come si evince dai numeri, comincia a sortire qualche risultato”.

Giro d’Italia 2020 – Filippo Ganna (ITA – Team Ineos) – photo Luca Bettini/BettiniPhoto©2020

Oggi, però, con la minaccia dell’emergenza pandemica, il termine “sicurezza” ha un significato più ampio…

“Veder partire i ciclisti con la mascherina sul volto è un aspetto che ti porta inevitabilmente a nuove riflessioni, ma credo che il mondo del ciclismo abbia dimostrato, molto più di altri sport, di saper rispettare certi protocolli di sicurezza. Aver corso un giro d’Italia e, soprattutto, averlo portato a termine significa aver saputo interpretare in modo rigoroso tutte le regole. E lo stesso vale per il giro d’Italia Under 23. Non dimentichiamoci poi che in Italia abbiamo organizzato un Mondiale in poche settimane, dimostrando di saper garantire quegli standard di sicurezza anti-Covid che l’UCI non ha trovato in altri paesi”.

In compenso, con il 20% di biciclette in più vendute nel 2020, il coronavirus sembra aver rilanciato tutta la filiera della bikeconomy. Dunque, si può davvero cogliere un aspetto positivo in questa emergenza epidemiologica?

“Mi lasci dire che non basta organizzare convegni per rilanciare il tema della bikeconomy. Ci vogliono fatti concreti, come ad esempio il bonus biciclette che ha generato un boom certificato nelle vendita. E’ chiaro che, al di là dell’aspetto ecologico o salutistico, il contesto ha certamente aiutato perché la necessità di non congestionare i mezzi pubblici e di prevenire ogni forma di contagio, ha sicuramente spinto la gente a ricercare con maggiore convinzione forme di spostamento più smart. E questo è un aspetto che può solo rallegrarci. E’ chiaro però che un anomalo aumento di biciclette sulle strade farà crescere in maniera esponenziale anche i rischi legati alla viabilità e dunque ad una crescita dei mezzi deve corrispondere una risposta altrettanto importante sia in termini di infrastrutture che sul fronte della cultura della convivenza sulle strade. Altrimenti si rischia un effetto elastico, ovvero quando la pandemia sarà superata, la gente – spaventata dai pericoli della strada – riporrà la bici nel garage e tornerà a prediligere i mezzi motorizzati”.

Che cosa bisogna fare per scongiurare questo rischio?

“In primis, passare da un’idea disarticolata di infrastrutture emergenziali a dei progetti più organici e strutturati. Bisogna definire regole, dimensioni, segnaletica e abbiamo bisogno soprattutto di omogeneità sul territorio. Non possiamo pensare di avere piste ciclabili diverse tra Bolzano e Trapani. Allo stesso modo serve un uso più sistemico dei dispositivi di sicurezza. Penso al casco che, al di là dell’obbligatorietà, va sempre utilizzato perché, in molti casi, non evita solo le sanzioni ma anche danni fisici rilevanti. Penso anche alle divise fosforescenti per una maggiore visibilità del ciclista sulla carreggiata ed anche ai dispositivi d’illuminazione che, obbligatori o meno, vanno sempre usati, anche di giorno”.

E poi c’è l’aspetto culturale, quello che dovrebbe insegnarci che la strada è prima di tutto uno spazio da condividere tra utenza debole e traffico motorizzato…

“E qui servono soprattutto le campagne di educazione. Viviamo tutti in un’epoca non semplice e sulle strade, dove noi italiani non siamo mai stati dei maestri di bon-ton, prevale più che mai l’intolleranza. E invece, nel rigoroso rispetto delle regole, così come avviene in altri paesi europei, dobbiamo assimilare una nuova cultura basata sulla pacifica convivenza e sul rispetto dell’altro. In Italia viaggiamo spesso su strade antiche e medioevali e dunque, a differenza del nord Europa, noi non abbiamo dodici metri di carreggiata da dividere equamente tra pedoni, bici e auto. Siamo un paese antropizzato che ha tantissima montagna, dunque la convivenza diventa, in molti casi, una scelta obbligata”.

Secondo alcuni il Covid rilancerà anche il cicloturismo: è d’accordo?

“A direi il vero, io resto sempre diffidente quando si parla delle abitudini degli italiani. Abbiamo visto che cosa è accaduto dopo la prima ondata pandemica: anziché diventare tutti un po’ più prudenti, non appena le maglie dei dpcm quest’estate si sono allentate, siamo tornati ad assembrarci come e più di prima. Dunque, temo che anche questa volta andrà così. Oggi siamo ‘slow’ perché le regole ce lo impongono ma, in uno scenario normativo differente, con la curva pandemica più rassicurante, non credo che la gente manterrebbe le stesse cautele. Detto questo, sono fermamente convinto che quello del ciclismo in bicicletta possa comunque diventare un asset sempre più strategico nel nostro paese. A patto però di lavorare su due direttrici: primo le ciclovie. La legge del dicembre 2018 stanziava oltre 300 milioni di euro per la costruzione di nuove opere e ne sono stati spesi appena 16 milioni. Secondo punto, le infrastrutture. Oggi in Italia manca ad esempio una regolamentazione univoca dei bike-hotel e, infatti, ogni consorzio si è fatto le sue regole. Trovare un disciplinare anche per queste strutture alzerebbe i livelli qualitativi della nostra ricettività rendendoci più credibili verso la clientela, soprattutto quella estera”.

Manca dunque un ragionamento complessivo sul sistema cicloturismo…

“E’ esattamente così. Il ciclista ha bisogno di un sistema integrato, come ad esempio avviene, seppur con le sue peculiarità, nel cammino di Santiago di Compostela dove, oltre al percorso, esiste una rete affidabilissima di servizi per i viaggiatori. Noi in Italia abbiamo la Francigena che, potenzialmente, potrebbe essere ancora più affascinante, ma dove è del tutto assente un sistema integrato al servizio del ciclista. Insomma, è triste sottolinearlo ma, anche in questo caso, non riusciamo a sfruttare pienamente la ‘grande bellezza’ di un paese che il mondo ci invidia”.

a cura di Mario Pugliese -Copyright © iNBiCi magazine

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