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L’INTERVISTA. DANIEL HOFER, SUA MAESTÀ NON ABDICA


Dopo anni di successi, il fuoriclasse di Bolzano fa l’istruttore nel 7° Reggimento Carabinieri a Laives, ma per lui il giorno del ritiro sembra ancora distante: “Mi alleno il 30% in meno ed ho scoperto il fascino delle arti marziali, ma c’è ancora qualche soddisfazione che vorrei togliermi”. A cominciare da fine mese con la Maratona di Vienna…

 

Daniel Hofer, classe 1983, pluri-decorato orgoglio tricolore, artista del triplice sport e, da un paio di stagioni, Brand Ambassador per Santini, nei suoi poliedrici trascorsi di vita ha sfilato, tra le altre cose, anche sulle passerelle della Fashion Week di Milano per il marchio Dirk Bikkembergs.

Il campione di triathlon del gruppo sportivo dei Carabinieri ha un curriculum lunghissimo e di tutto rispetto, dalle competizioni nazionali alle World Cup. Ha carattere da vendere, parla correttamente quattro lingue e da sempre adotta il “think positive” come filosofia di vita, con la convinzione che pensieri positivi attirano sempre fatti positivi.

Inguaribile ottimista, è uno di quelli che “da ogni sconfitta si impara e si torna più forti di prima”. Oltre al triathlon coltiva anche la passione per il surf, lo snowboard ed ha scoperto recentemente il jujitsu per realizzare il sogno di praticare finalmente uno sport di combattimento, “sogno che prima – dice – non potevo realizzare per paura di farmi male. Adesso, invece, ho mollato un po’ la presa…”.

Daniel, che cosa vuol dire “ho mollato un po’ la presa?”

“Vuol dire che adesso lavoro nel 7° Reggimento Carabinieri a Laives e faccio l’istruttore; è un lavoro che mi piace molto. Cerco di dare il mio contributo come sportivo professionista, mettendo la mia esperienza al servizio degli allievi più giovani. Questo lavoro mi permette comunque di allenarmi, ma ho ridotto la mia attività circa del 30%. Adesso sostituisco un po’ le uscite in bici e le sessioni di corsa con l’arrampicata e jujitsu. Di appendere scarpe, costume e bici al chiodo del tutto se ne parlerà dopo i quarant’anni, forse. Per il momento sono proiettato sulla Maratona di Vienna, a fine mese, che è una gara che non ho mai fatto, vedremo come andrà”.

foto by Beardy Mc Beard

 

Hai dichiarato più volte che nasci come nuotatore e che la corsa è la tua passione; il tuo incontro con la bici da corsa com’è stato?

“In bici ho iniziato ad andarci come tutti da piccolo, con mio padre, nel cortile di casa; fino a diciassette anni non ho mai praticato bici in senso agonistico. Del resto, le prime gare di triathlon da giovanissimi si facevano con le mountain-bike, non con le bici da corsa; prima di tutto per un problema di stabilità, con quelle se ne aveva molta di più, e poi perché erano distanze molto corte, perciò era molto difficile che le percorressimo su strade asfaltate”.

A che età la tua prima bici da corsa?

“Attorno ai dodici anni, ma la utilizzavo solo in estate perché in inverno, quando non correvo e non nuotavo, ero impegnato a giocare a hockey su ghiaccio. Il primo approccio quindi è stato decisamente poco “traumatico”, erano uscite tranquille insieme a mio padre, nel periodo primavera-estate, che non prevedevano grossi sforzi né grandi distanze”.

Allenarti in bicicletta è la cosa che ti risulta più faticosa tra le tre discipline?

“No, mi piace molto e mi rilassa in realtà, anche se non sono un grande amante delle salite lunghe, preferisco di più quelle corte, anche se penso che la mia preferenza sia dettata in gran parte dal mio peso. Sono un triatleta, ma non ho il fisico di un ciclista; sulle salite corte mi difendo, ma sulle lunghe soffro tutti i miei 78 kg”.

Il tuo è uno sport non particolarmente conosciuto, soprattutto in Italia. Quando eri un ragazzino non ti attirava di più l’hockey su ghiaccio che, soprattutto in questa zona, è molto popolare?

No, a dodici anni ho deciso, da un giorno all’altro, quale disciplina volevo praticare e, da quel momento, mi sono dedicato anima e corpo al triathlon. In ogni caso, non mi sono mai sentito molto tagliato per gli sport di squadra. Se voglio raggiungere un obiettivo, da solo sono sicuro di ciò che faccio e delle mie possibilità; in squadra non sai mai se tutti gli atri sono nella tua stessa condizione fisica e mentale. Quindi semplicemente un giorno sono tornato a casa e ho detto ai miei genitori che volevo smettere con l’hockey e iniziare con il triathlon seriamente, perciò abbiamo cercato un preparatore e ho iniziato a fare questo. In generale comunque mi sento una persona molto fortunata, perché sono sempre stato, e lo sono ancora, molto portato per lo sport in genere”.

foto by Beardy Mc Beard

 

Molti talenti dello sport italiano sono tuoi conterranei: perché questa terra produce così tanti campioni?

“Penso che vivere in montagna aiuti molto a sviluppare interesse per tutte quelle attività che si svolgono all’aria aperta. Vengo da una famiglia che ha sempre praticato sport e quindi sono sicuramente cresciuto con un’impostazione mentale di un certo tipo, ma mi sento di dire che, almeno per quel che riguarda la mia personale esperienza, da queste parti anche il lavoro della scuola in questo senso è molto importante. L’approccio che la maggior parte di noi ha con lo sport avviene a scuola, appunto. Se hai un talento, vieni subito indirizzato in una squadra che ti dà la possibilità di crescere, anche se poi la maggior parte dei ragazzi, intorno ai diciassette anni, magari smette e si dedica ad altre cose”.

Quanto è importante per un professionista dello sport avere cura della propria immagine?

“Un po’ di tempo fa ho letto un articolo sul cosiddetto “atleta 2.0”; parlava proprio di questo. Oramai si vedono amatori molto più bravi dei professionisti a curare la propria immagine. Penso che, soprattutto negli sport cosiddetti “minori”, che quindi non godono di molta visibilità sui media e non sono trasmessi o seguiti abitualmente in televisione, sia fondamentale sapersi vendere”.

Per chi si avvicina a questa disciplina sei una figura di riferimento; quale messaggio senti di dare ai giovani atleti?

“Purtroppo questo è uno sport complesso, forse più degli altri perché sono tre discipline racchiuse in una e, anche se pensi di avere una buona condizione generale, ci sono troppe variabili da calcolare al momento della gara. Penso di aver fatto molte più gare brutte che belle nella mia vita, ma alla fine non ho mai mollato, dedicandomi sempre a ciò che facevo con costanza e determinazione. Avere la testa libera e voler raggiungere un traguardo deve essere la prima condizione per avere successo; ma bisogna cercare le motivazioni prima dentro se stessi ed essere pronti a rialzarsi e a ricominciare sempre da capo. Altrimenti la cosa può essere vista così: è sempre un ottimo sport per mantenersi in forma, viaggiare e stare in giro con gli amici”.

foto by Beardy Mc Beard

 

Come vedi il triathlon professionistico nei prossimi anni?

“Con l’introduzione della staffetta e delle distanze più corte tenderà a essere molto più veloce e spettacolare per la disciplina olimpica; nell’ambito Ironman invece ci sarà una costante crescita di numero e di livello”.

Di uscire di scena del tutto non se ne parla al momento, ma per queste cose è molto difficile stabilire il “momento giusto”. Si dice che per ogni grande dello sport il ritiro sia quasi una “prima morte”; ma Daniel Hofer trasmette la serenità di chi potrebbe decidere di appendere il suo talento al chiodo oggi stesso, sicuro di aver lasciato dietro di sé tante gioie e nessun rimpianto.

A cura di Eleonora Pomponi Coletti – Copyright © INBICI MAGAZINE

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