“Nonno Gino è volato ad abbracciare Coppi”, così vent’anni fa – il 6 maggio 2000 – la “Gazzetta dello Sport” apriva la sua edizione quotidiana nel ricordo del grande campione, scomparso il giorno prima a Firenze.
Nonostante dalle sue grandi imprese siano passati più di vent’anni, Ginettaccio è ancora un punto fermo per gli appassionati del ciclismo, un gigante, un monumento. Lo è per quello che ha dimostrato sulla strada – nelle leggendarie fughe con Coppi – ma anche per quello che ha fatto fuori dalla strada. Nel 2013 Bartali è stato nominato “Giusto fra le nazioni”; ciò che racchiudeva in una delle sue frasi più famose ha preso forma ed è diventata una bellissima pagina di storia e di solidarietà: “Il bene si fa, ma non si dice e certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca”.
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Nel suo palmares tre Giro d’Italia e due Tour de France, uno dei quali – quello del 1948 – ha salvato l’Italia dal baratro della guerra civile, dopo l’attentato a Palmiro Togliatti. Poi quattro Milano Sanremo e tre Giro di Lombardia. Il Bartali uomo, poi, è stato nominato Grande Ufficial dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana; Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana e Medaglia d’oro al Merito Civile. Della sua battaglia personale, negli anni della seconda guerra mondiale, ha sempre parlato poco, quasi nulla, nemmeno in casa con i parenti più stretti. Qualche anno prima della morte lo ha raccontato al figlio Andrea e poi alle sue nipoti, anche se molti dettagli sono arrivati dopo la sua nomina a Giusto fra le Nazioni, avvenuta nel 2013, tredici anni dopo la sua scomparsa.
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Questa sera alle 21.10 Rai Storia ha scelto di raccontarlo in un documentario a firma di Gianluca Miligi e Marco Orlanducci: ma concentrare Bartali in qualche minuto o in un solo articolo è pressoché impossibile. Sulle sue imprese c’è così tanto da dire e da scrivere che, a volte, non bastano nemmeno libri interi. C’è il suo amore per Adriana, sposata nel 1940; il Giro dello stesso anno, vinto da Coppi spronato, su una delle salite delle Alpi, a non mollare con la frase “Coppi, sei un acquaiolo!” e poi la pausa, dovuta alla guerra. In questi anni Gino lavora con riparatore per biciclette e poi – tra il 1943 e il 1944 inizia a compiere numerosi viaggi in biciclette da Cortona ad Assisi: nessuno fermava un campione del suo calibro, in allenamento; nessuno si immaginava che in quegli allenamenti Bartali trasportasse documenti e foto di ebrei nei tubi del telaio, affinché una stamperia ne potesse ricavare documenti falsi. Grazie al suo impegno sono stati salvati circa 800 cittadini ebrei dalle barbarie naziste.
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Dopo la guerra, Bartali ormai trentenne, era dato per finito. Ma al Tour de France del 1948 stupì ancora tutti: a trentaquattro anni Ginettaccio recuperò oltre venti minuti da Louison Bobet nella Cannes Briancon; vinse la tappa del giorno successivo e conquistò la maglia gialla. La sua impresa distolse – si narra – l’Italia dall’attentato di Palmiro Togliatti. La vicenda non è mai stata confermata, ma si racconta che alla vigilia della Cannes Briancon fu Alcide De Gasperi a chiamare Bartali, in Francia, chiedendogli di vincere la tappa successiva: e, grazie alla sua impresa, l’Italia pronta a scendere in piazza per manifestare si trasformò in un’Italia in festa per la grande corsa di Gino.
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Eroe, sicuramente, di un ciclismo diverso rispetto a quello a cui siamo abituati oggi; ma anche e sopratutto un’eroe dal grande cuore. Una dote che – proprio recentemente a causa dell’epidemia di Coronavirus – abbiamo riscoperto essere presente anche nei ciclisti di oggi: in tanti quelli che hanno messo a disposizione gambe e bici per mettersi al servizio dei più deboli, consegnando la spesa a casa o prestandosi per commissioni a favore di chi non poteva uscire. L’esempio di Gino, anche a vent’anni dalla morte, non smette mai di insegnare; perchè “certe medaglie si appendono all’anima”.
a cura di Chiara Corradi per iNBiCi Magazine