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OMAR DI FELICE: “LA ARTIC HIGHWAY MI HA INSEGNATO COME PRENDERE UN GRANDE PROBLEMA E SCOMPORLO IN TANTI PICCOLI RISOLVIBILI”


Omar Di Felice è sicuramente una star del mondo ultracycling. Se per molti corridori su strada l’approdo al professionismo è il coronamento di un sogno per il ciclista romano è stato l’inizio del suo sogno fatto di un ciclismo diverso in cui si cerca di realizzare vere e proprie imprese immersi nella natura con paesaggi che rimangono scolpiti per sempre nella memoria di chi li affronta. La sfida più importante è stata sicuramente quella raccontata nel libro Pedalando nel silenzio di ghiaccio con gli oltre 1300 chilometri affrontati sulla Arctic Highway, diventando il primo corridore nella storia ad affrontarla in inverno. Questa però non è stata l’unica impresa affrontata da Di Felice che ha anche percorso l’intera Italia in bicicletta o attraversato gli interi Stati Uniti da costa a costa. Di queste imprese abbiamo parlato proprio con Di Felice in occasione della pedalata organizzata sabato durante la Bike Events.

La tua impresa più epica è sicuramente quella raccontata nel libro Pedalando nel silenzio di ghiaccio. Che aneddoto ti porti da quell’esperienza?
“Trovandomi in condizioni meteo così estreme mi ha insegnato che l’essere umano quando si trova veramente a contatto con la natura ed ha bisogno di trovare una soluzione è in grado di tornare a quelli che sono i bisogni essenziali e capire quali sono i modi per uscire da situazioni che possono apparire insormontabili. Sicuramente mi ha insegnato molto soprattutto per capire prendere un grande problema od un ostacolo e scomporlo in piccoli problemi che hanno una soluzione più rapida. Pedalare sull’Artic Highway è veramente una questione di cuore”.

Questa volontà e capacità di superare gli ostacoli arriva forse anche dai problemi che hai trovato nel mondo del professionismo su strada visto che eri riuscito ad arrivarci, ma una serie di problemi ti hanno impedito di realizzarlo concretamente.
“In realtà quando ho sfiorato il sogno del professionismo mi sono scontrato con un mondo che magari non ero ancora pronto ad affrontare. Allo stesso modo questo mi ha messo molto a nudo e permesso di fare un grosso esame di coscienza capendo che io in quel mondo lì non sarei riuscito a dare il massimo, mentre ero portato più per le lunghe distanze. Mondo delle lunghe distanze che già da ragazzo mi affascinava molto e quindi alla fine arrivare al professionismo è come se fosse la scintilla che mi ha fatto decidere di uscire e di lanciarmi nel mondo dell’ultracycling”.

Si può dire quindi che a seguire attentamente i watt hai preferito correre seguendo il cuore e le proprie sensazioni?
“Sì anche se ovviamente anche ora non mi alleno a caso visto che anche il mondo dell’ultracycling si sta ormai iper specializzando e poter vincere una competizione in questo mondo significa esser allenati molto bene. Diciamo che ho imparato ad utilizzare i dati come i wattaggi sempre ascoltando però le sensazioni del mio cuore. Si arriva ad un momento in cui non basta più solo quello che riesci ad esprimere dal punto di vista fisico, ma serve la testa ed il cuore per andare oltre le difficoltà”.

Arrivare al professionismo per molti è il coronamento di un sogno. Si può dire per te che è stato invece l’inizio di un sogno?
“Sì, sicuramente. Arrivare al professionismo mi ha dato una grande soddisfazione visto che comunque è il sogno che hanno un po’ tutti i ragazzi. Anche io avevo questo sogno fin da bambino quando alla televisione vedevo le imprese di Marco Pantani. Però quell’esperienza ha dato poi il via alla vera essenza di me e mi ha aperto le porte di un sogno molto più grande. Sono contento di quell’esperienza, ma se oggi mi chiedessero di tornare professionista direi di no. Ho già avuto l’occasione di tornare fra i professionisti qualche anno fa, ma ho declinato l’offerta decidendo di continuare su questa strada perché è realmente quello che mi gratifica di più e mi permette di avere maggiore libertà di esprimermi”.

Per correre in condizioni climatiche molto particolari come quelle dell’Artico quanto sono importanti i materiali?
“Con le aziende sono io il primo a metterle in difficoltà perché mi ritrovo a testare dei componenti a delle temperature a cui normalmente non vengono provati. Diventa quindi molto importante anche il momento di lavoro fra me ed i miei partner”.

L’aver pedalato sulla Artic Highway però non è stata la tua unica sfida. Hai già in mente quella che sarà la tua prossima sfida?
“Con l’Artic mi sono innamorato di pedalare su quel tipo di paesaggi e di pedalare al nord. Proprio alla luce di questo sicuramente la prossima sfida sarà una lunga traversata invernale. Non posso però ancora svelare quale sarà questa nuova sfida”.

Da Formello, Riccardo Zucchi per InBici Magazine

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