Dagli albori con la mitica Garibaldina all’amicizia con Enzo Ferrari, passando per Merckx (“un perfezionista”) fino alla rivoluzione del carbonio, la storia, le idee ed i sogni del grande costruttore di Cambiago: “I progetti migliori? Quando sono andato controcorrente”
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Strani giochi del destino: l’auto ha quattro ruote, la bici solo due. Ebbene Maranello, sede della Ferrari, ha il doppio degli abitanti di Cambiago dove si costruiscono le Colnago. Ma l’amore che gli appassionati di auto nutrono per “la rossa” non è certamente superiore a quello che i ciclisti hanno per la “Ferrari delle biciclette”.
Ernesto Colnago, ottantasei anni compiuti in febbraio, ha la stessa grinta, la stessa carica, la stessa curiosità di quando, ragazzino tredicenne, si presentò in Viale Abruzzi a Milano sede della Gloria. “Uno storico marchio di biciclette con la famosa Garibaldina. Dovetti falsificare il documento di nascita perché non si poteva avere il libretto di lavoro prima di 14 anni. Facevo l’aiuto saldatore e tra i miei compagni c’erano Ernesto Formenti, pugile che ha conquistato la medaglia d’oro all’Olimpiade di Londra ’48 e Gian Maria Volontè, figlio di portinai, divenuto attore di fama”.
Usava la bici non solo per raggiungere il posto di lavoro (“d’inverno andavo a prendere il tram a Villa Fornaci”) ma anche per confrontarsi con coetanei in gare prima di allievi e poi di dilettanti. “Una brutta caduta nella Milano-Busseto mi è costata la frattura del perone con relativa ingessatura e steccatura della gamba per cinquanta giorni. Non potevo muovermi da Cambiago quindi ho chiesto al titolare della Gloria, Andrea Focesi, di mandarmi a casa delle ruote da montare. Visto che venivamo pagati a cottimo, in una settimana ho guadagnato quello che a Milano intascavo in un mese. E poi mi sono fatto mandare delle biciclette, ogni settimana assemblavo venticinque Garibaldina”.
Da qui l’idea di mettersi in proprio, aprire una piccola officina: “I miei genitori erano contadini, come tutti a Cambiago, c’era bisogno di qualcuno che riparasse le bici, unico mezzo di trasporto in campagna. Così, anziché farmi dare soldi dalla Gloria, mi facevo mandare il materiale necessario per le riparazioni nella mia bottega di cinque metri per cinque. Era il 1954, anno in cui ho incontrato Magni che ha cambiato la mia vita”.
A distanza di tanto tempo Ernesto Colnago ricorda quell’incontro in ogni particolare. “Ogni tanto andavo a fare qualche giro in bici con Albani, Crippa, Recalcati, Arrigoni. Quel giorno c’era anche il signor Magni, all’epoca gli davo del lei, che si lamentava per un dolore alla gamba che lo infastidiva da qualche tempo. Dopo aver guardato la sua bicicletta gli ho detto che il male che accusava era causato da una pedivella non in asse e gli ho suggerito di passare dalla mia bottega per sistemarla. Al termine dell’allenamento il dolore era scomparso. Il giorno dopo mi mandò il suo massaggiatore di fiducia Isaia con la proposta di andare al Giro d’Italia. Prima però dovevo prendere contatto con il suo meccanico-costruttore, Faliero Masi che aveva l’officina al Vigorelli. Mi sono presentato con un mosquito, ovviamente usato, che avevo acquistato con un mio amico e Faliero appena mi vide disse che lui non riparava motori. Ma quando gli ho riferito della proposta di Magni ha dato il suo consenso, non prima però di avermi parlato di telai, forcelle, cambio, brugole, ma mai parlato di soldi.”
Dopo quell’anno la vita professionale di Ernesto Colnago ha avuto un’accelerazione degna della Ferrari. Meccanico della Nivea Fuchs di Fiorenzo Magni che nel ’55 strappò il Giro al giovane Nencini con la complicità di Fausto Coppi, Ernesto Colnago costruì il suo primo telaio nel ’57 proprio per Gastone Nencini pilotato dall’ammiraglia da Fiorenzo Magni e Tano Belloni alla conquista della maglia rosa. “Da allora non ho più smesso di fare telai e assemblare bici cercando sempre di inventare qualcosa di nuovo come la piegatura delle forcelle a freddo, l’uso di materiali quali il titanio e il carbonio, la forcella dritta. Sono andato spesso controcorrente, mi hanno anche criticato ma alla lunga certe mie intuizioni si sono rivelate esatte tanto che tutti le hanno copiate. Dal 1970 le mie bici sono marchiate con l’asso di fiori che è diventato il simbolo dell’azienda”.
Dai tempi della Nivea di Fiorenzo Magni alla UAE di Fabio Aru sono passati sessantaquattro anni. Il mondo è profondamente cambiato e il ciclismo? “Quando ho cominciato a fornire le mie biciclette alle squadre professionistiche solo il capitano o al massimo un paio di corridori avevano a disposizione i modelli più sofisticati, per gli altri andavano bene le bici cosiddette di serie. Adesso i team del Pro Tour hanno 28-30 atleti ed io devo fornire a ciascuno quattro bici da strada e due da cronometro, non importa se un corridore deve puntare a vincere Giro o Tour e a un altro si chiede di sacrificarsi in qualche fuga da lontano per proteggere il capitano di giornata, ora tutti indistintamente hanno il diritto ad avere il meglio. Sei biciclette per ogni atleta sono un bel numero, a fine stagione mi vengono restituite ma per quella successiva devo sempre fornire modelli aggiornati perché c’è qualche piccola variazione, qualche innovazione, non dico miglioramenti sistematici ma qualche cosa di diverso rispetto ai mesi precedenti e quindi da me pretendono i modelli più aggiornati. Quelli restituiti cosiddetti ‘vecchi’, talvolta mai usati, restano qui in azienda. A tutt’oggi ho in casa una sessantina di biciclette che nulla hanno da invidiare a quelle che stanno usando Aru ed i suoi compagni e che metto in vendita in pratica al prezzo di costo. Invece ai tempi della Molteni di Merckx solo a lui dedicavo particolare attenzione, pensi che in un anno gli ho costruito ben 27 bici”.
Il nome del fuoriclasse belga evoca un torrente di ricordi. Difficile sceglierne uno. “Era straordinario, sotto tutti gli aspetti, un perfezionista, persino maniaco per i dettagli. Per il mondiale di Mendrisio ‘71 gli ho preparato tre biciclette con tre diverse inclinazioni del tubo piantone: 16, 16.5, 16.8. Per provarle si è sobbarcato un allenamento di 380 chilometri, partendo dall’Abetone. Alla vigilia della gara, dal ritiro della nazionale belga mi ha chiamato perché lo andassi a trovare. Quando sono arrivato era in camera cQon alcuni compagni mentre osservava le tre bici perfettamente allineate perché infilate tra gli elementi del calorifero. Alla domanda ‘padrun, quale sceglieresti?’ ho risposto ‘quella da 16.5’ confermando la sua decisione. Nel toglierla dal calorifero, però ha storto ruota e forcella per cui sono stato costretto a fare le ore piccole per rimettere la bici in perfetto stato. Il giorno dopo il mondiale che ha vinto davanti a Gimondi, è venuto a casa mia per offrire a mia moglie il mazzo di fiori. Era l’anniversario del mio matrimonio”.
Un rosario di nomi di corridori che hanno corso con le sue biciclette, da Motta a Dancelli, Zoetemelk, Baronchelli, Saronni, Bugno, Freire, Rominger, Argentin, Ballerini, Museeuws, Cancellara, Popovich, Zabel, Petacchi quelli che affiorano subito alla mente, ma è difficile ricordarsi più di 2500 nomi di un centinaio di squadre (“per me sono stati tutti come dei figli e per raccontare tutti gli aneddoti ci vorrebbe una settimana ma io devo lavorare, non ho tutto quel tempo”). Figli che gli hanno regalato 61 titoli mondiali e 11 olimpici.
Più facile per Ernesto Colnago parlare dell’evoluzione delle sue biciclette. “Quando nel 1972 Eddy decise di tentare il record dell’ora, l’assillo di tutto il ciclismo era quello della leggerezza del mezzo. Si parlava di leghe leggere, di titanio, ma dove trovarlo, come lavorarlo? Pensate che ho dovuto spedire tre manubri in titanio a Detroit per farli saldare. Avevo praticato dei fori persino nella catena così che alla fine la bici del record pesava appena 5 chili e 750 grammi. Per quell’epoca fu ritenuta un vero e proprio gioiello”.
Un’altra svolta nella carriera del costruttore brianzolo, l’incontro con Enzo Ferrari. “Sono andato da lui perché pensavo si potesse usare anche per le biciclette i materiali adottati dalla formula 1, il carbonio in particolare. Volevo capire e volevo imparare. Ho investito molto in quel progetto, lo stesso Ferrari mi metteva in guardia ‘tutte le volte che vieni qui è un costo per te’. Già, calcolato che le ricerche nei vari campi mi sono costate un miliardo abbondante, parlo di lire logicamente. La frequentazione con la Ferrari Engineering ha portato alla Concept, la prima bicicletta con tubi e congiunzioni in fibra di carbonio e poi mi ha permesso di sviluppare altri modelli. Una grande lezione avuta da Enzo Ferrari l’ho avuta a proposito della forcella. Mi ha dimostrato come quella diritta assorbisse meglio i colpi di quella curva. Da sempre avevo visto forcelle fatte in quel modo, mi ero ingegnato a varare una tecnica per la piegatura a freddo di quelle in acciaio, ero da un lato dubbioso e dall’altro scettico. Ma l’ho fatta quasi controvoglia, l’ho chiamata ‘precisa’ e l’ho montata sulla bici di Franco Ballerini che ha vinto la Roubaix del ‘95. E’ qui in esposizione ancora sporca di fango. In quegli anni per affrontare il pavé venivano adottati ammortizzatori nelle forcelle, ebbene i corridori che avevano scelto la ‘precisa’ mi avevano riferito che consentiva una guida più fluida e che attutiva meglio i colpi tanto che poi tutti l’hanno copiata adottandola forcella dritta”.
Carbonio, titanio, alluminio, acciaio, un altro gioiello uscito da Cambiago per il record dell’ora di Tony Rominger che a Bordeaux nel novembre del 1994 sfondò il muro dei 55 orari. E addirittura l’oro. Sul volto di Colnago si stampa un sorriso. “E’ stato un mio cliente a farmi venire l’idea. Si era presentato in azienda perché voleva acquistare una bicicletta super. Gli ho mostrato vari modelli, diciamo i più sofisticati, e immancabilmente replicava ‘sì bella ma voglio di più’. Spazientito ad un certo punto gli ho detto ‘ma cosa pretendi di più, vuoi una bici d’oro?’ e subito la risposta ‘sì, la voglio d’oro’. Mi ero messo in un bel guaio ma ne sono uscito alla grande perché a Como ho trovato i fratelli Peverelli specialisti nella laminazione in oro. Fortunatamente nel loro impianto si poteva immettere il telaio così ho lanciato la bici d’oro che ho regalato a vari personaggi del mondo dello sport e dello spettacolo”. Tra i beneficiari delle bici d’oro papa Paolo II (“ma quando gliela consegnai mi disse che non poteva usarla, così ne mandai una più turistica che usò nella residenza estiva di Castel Gandolfo”) e il sindaco di Milano, Carlo Tognoli.
L’ultima (per ora) ‘invenzione’ di Ernesto Colnago: i freni a disco. “Erano anni che ci pensavo, quando sono riuscito a risolvere il problema ho passato il progetto a Campagnolo, ma è stato Shimano a buttarsi sul prodotto tanto che oggi ha quasi il monopolio. Se trovo delle soluzioni non le tengo per me, lo scopo di un costruttore non può essere unicamente il guadagno. Mi piace cercare nuove soluzioni, punto soprattutto sulla sicurezza perché è il grande problema che il ciclismo deve affrontare”.
Un’ultima considerazione, signor Colnago: tra i suoi gioielli c’è anche la bici elettrica? “Premetto che l’eBIKE, a mio giudizio, è il mezzo di trasporto dell’avvenire. La pedalata assistita, specie per gente di una certa età, consente di affrontare percorsi e distanze che sarebbero precluse. Non solo, in un mondo che sta conducendo una grande battaglia contro l’inquinamento, la bicicletta che è ecologica per definizione troverà sempre più spazio. Però io sono soprattutto un costruttore di bici da corsa e voglio continuare ad esserlo e non vedo spazio per la bici elettrica nel mondo dell’agonismo. Per questo motivo ho ceduto il mio nome all’Atala che le produce”.
Già, continua il parallelismo Ferrari-Colnago. Stavolta, però, a vincere è la bicicletta. Perché chiunque può pedalare sul mezzo usato da Fabio Aru, ma nessuno (tranne gli addetti ai lavori) può andare in giro con la formula 1 pilotata da Sebastian Vettel.
a cura di Gianfranco Josti – Copyright © iNBiCi magazine –
CHI E’ GIANFRANCO JOSTI
Gianfranco Josti è uno dei più autorevoli giornalisti del mondo del ciclismo.
Decano dei giornalisti italiani, penna pungente e fine conoscitore del mondo dello sport,
Per anni firma di punta del Corriere della Sera, autore di tanti libri di successo.